domenica 26 aprile 2020

LA FINE DEL MONDO #10: 'DETACHMENT', di Tony Kaye

DETACHMENT (2011) di Tony Kaye




Il girone infernale dei teenagers
di Maddalena Marinelli

Sul volto di un adolescente è difficile capire quando un sorriso indica gioia oppure preannuncia qualcosa di terribile in arrivo. 
Nel momento in cui la famiglia, la società, la scuola non riescono a creare un’area di riflessione che riesca ad arginare questa emotività incontrollata i ragazzi cercano le risposte, ad un vuoto emotivo ed esistenziale, nell’abuso di droga, nel sesso privo di legami affettivi, nella violenza immotivata  in un processo che può essere solo autodistruttivo. 
Una delle cose più devastanti è vedere un adolescente che si butta via e non riuscire ad impedirlo.
In Detachment gli insegnanti assistono, giorno dopo giorno, al disfacimento di giovani vite in un crescente stato d’impotenza, che porta alla deriva le loro stesse esistenze.
Un degradato istituto pubblico della periferia americana. 
L’autorità derisa, è stata quasi completamente annientata. 
Il dovere è di educare ed istruire ma non è facile farsi ascoltare da adolescenti  in cui l’identità è appena accennata e in continua mutazione, tra il non sapere chi si è e la proiezione di quello che si sogna di diventare. 
Quando il futuro appare deludente diventa una minaccia. 
Perdere la strada accade in un attimo, mentre per ritrovarla possono volerci degli anni o non può bastare una vita.
La scuola e il mondo compaiono come il girone infernale dei teenagers nel cui vortice viene smembrata ogni cosa. 
Il protagonista, col suo metodo del ‘distacco’, sembra l’unico che riesca a non mollare gli ormeggi di questo barcone lacerato, ormai alla deriva.

Adrien Brody in 'Detachment'

Dalla strage, che si prefigura in questa guerra, dovrà cercare di non soccombere e di salvare qualche vita. 
Intorno a lui  i suoi colleghi escono letteralmente fuori di testa. 
Per andare avanti si affidano a psicofarmaci, si aggrappano disperati l’uno ai brandelli dell’altro in estenuanti confronti per capire quale sarà il prossimo piano d’attacco dopo il fallimento dell’ultimo.  
Ognuno cerca di sopravvivere come può al dilagante nichilismo. 
Gli studenti sono esseri apatici, demotivati, incontrollabili, minacciosi. 
Gli esiti vanno dallo stordimento tramite droghe e sesso, al disinteresse, al gesto violento o alla genialità creativa nel caso della fragile Meredith, oppressa dal rapporto col padre.
Henry Barthes è un supplente irreprensibile, questa è l’arma per tenere sotto controllo la sua classe di ragazzi difficili e i ricordi rimossi della sua infanzia. 
Cerca di fare la cosa giusta per i suoi studenti, per suo nonno che sta morendo in clinica e per la prostituta minorenne che ospita a casa sua.
Tenere tutto sotto controllo, questa è la strategia di Henry, così riesce a sopravvivere ma non a vivere. 
Colpo dopo colpo il suo scudo vacilla e poi si rompe facendo emergere tutte le emozioni soffocate. 
Finalmente Henry lascia la superficie e affonda, scivola giù, entra in contatto con se stesso e il suo doloroso passato per poter riemergere e vivere pienamente il  futuro anche se le sconfitte saranno più numerose delle vittorie. 
Perderà la sua sensibile allieva Meredith, schiacciata dai complessi di inferiorità, ma forse riuscirà a salvare la 'lost girl' Erica.
Come in Elephant si viene avvolti da una costante e crescente atmosfera di distruzione imminente. 
Una bomba a orologeria che Gus Van Sant alimenta per stasi e concettualismi mentre Tony Kaye, all’ opposto, crea attraverso forti dinamismi visivi e verbali.

Adrien Brody e Sami Gayle in 'Detachment'

L’eclettico regista inglese già nell’acclamato American History X, aveva affrontato le strade buie dell’odio in cui si possono perdere le giovani generazioni.
Kaye assale lo spettatore attraverso un complesso montaggio incalzante e destrutturante in cui alterna, al normale flusso della storia, inserti mockumentary con finte interviste ai personaggi, sequenze di disegni animati e fotografie, improvvisi frammenti flashback, paralizzanti come un cortocircuito. 
Gioca sull’alternanza tra b/n (irrealismo) e colore (realismo). 
La crudezza della camera a mano vibra sui volti ardenti o sfatti dei protagonisti. 
Uno stile registico mutevole che mette a dura prova   l’ occhio pigro alle sperimentazioni. 
Un organismo espressivo molto carico e difficile da digerire ma assolutamente efficace nel rilascio emotivo. 
Propone una panoramica inedita e approfondita su storia e personaggi sfruttando puramente il linguaggio visivo nelle sue diverse forme creando più linee narrative.
Il film non delude nemmeno nella sceneggiatura firmata da Carl Lund, un ex insegnante di scuola pubblica diventato scrittore e produttore. 
Forti e immediati i dialoghi concentrano tensione e sensibilità nonché colte citazioni.

Adrien Brody e Sami Gayle in 'Detachment'

La scuola non sa più cosa fare. 
Quando nei giovani si respira il tanfo dell’ indifferenza, dell’anaffettività, della disillusione il futuro appare interrotto.
Detachment è un film apocalittico sull’ istituzione scolastica  e parallelamente sulla sofferenza  di un uomo ferito che fugge da se stesso e dagli altri, rifiutandosi di crescere come non crescono i suoi allievi chiusi in un atroce limbo regressivo.
A dare vita a questo intenso personaggio, fragile come una canna al vento ma difficile da spezzare, è un sorprendente Adrien Brody che come un alieno kafkiano piomba in questa catastrofe esistenziale giovanile con in mano Il crollo della casa Usher di Edgar Allan Poe. 
Una perfetta allegoria della realtà scolastica di cui fa parte: 
Studenti e insegnanti con vite lesionate che stanno crollando, portandosi dietro i loro spettri irrisolti.

giovedì 16 aprile 2020

LA CASA #2: 'IO E TE', di Bernardo Bertolucci

'IO E TE' (2012) di Bernardo Bertolucci


Uno sconfinato spazio chiuso
di Maddalena Marinelli

Fuggire dall’assedio. 
Barricati in un appartamento parigino; serrati in una vecchia cantina di un palazzo romano; trincerati in se stessi; sospesi in rapporti insani; compressi dentro un’identità fasulla.
Dopo nove anni da The Dreamers, Bernardo Bertolucci ‘rinasce’ attraverso un’altra storia di gioventù smarrita ma questa volta ambientata nel nostro tempo.
Un film incredibilmente essenziale, mai privo di bellezza visiva e ingegno tecnico. Tratto da un racconto di Niccolò Ammaniti ma stravolto, ampliato, addirittura rigenerato durante la fase di ripresa sul set, come racconta lo stesso regista.
Anche perché già cambiare il finale ribalta tutta la visione di Ammaniti. 
Bertolucci elabora una versione personale della vicenda, la rende sua. 
C’è sicuramente molto di autobiografico, soprattutto in riferimento agli ultimi anni di convivenza con una malattia che lo costrinse su una sedia a rotelle:   
«Questo è un film su una liberazione, quella del protagonista e forse anche la mia: per qualche anno mi sono chiuso in casa, ma per girarlo sono uscito, e ho ricominciato a fare film ma anche a vivere». (Bernado Bertolucci)

Tea Falco e Jacopo Olmo Antinori in 'Io e te' 

Le escursioni esterne sono poche e brevi perché l’ansia della macchina da presa è tutta concentrata nel raccontare i corpi dei due protagonisti e l’interno claustrofobico e magico di una vivissima cantina-utero. 
Si oltrepassa la cellar door e si entra nell’inconscio di una casa che ad ogni inquadratura cambia e svela una nuova faccia. 
Un polveroso scantinato che diventa tana, ring, esternazione dell’anima, una tomba abitata da vivi che non riescono a  trovare la loro identità fuori nel mondo reale.
Il quattordicenne Lorenzo invece di partire con la sua classe per la settimana bianca decide di rinchiudersi, per sette giorni, nella cantina del suo palazzo ma irromperà un elemento disturbante a turbare i suoi piani. 
La sorellastra Olivia piomberà nel rifugio del ragazzo rimettendo in circolo vecchi rancori di famiglia, ripicche, gelosie, sfoghi e  bisogno d’affetto.
Prima o poi bisogna cambiare, crescere e ridurre quelle distanze dal mondo.
Questo incontro inaspettato e burrascoso provocherà un beneficio nella vita di entrambi, generando un rapporto di confidenza e solidarietà. 
Una fonte d’inaspettato amore che porterà un’evoluzione in quella staticità in cui le loro vite si erano arenate.
Un ragazzo solo e una ragazza sola immersi nella notte si prendono una pausa da un mondo fatto di competizioni e  sopraffazioni, scomparendo in un sottosuolo in cui sono ammassati mobili, oggetti e vestiti degli anni 50’. 
Un’alcova di reclusione ed evasione per Lorenzo e Olivia che inaspettatamente si ritroveranno a condividere questa angusta e insolita prigionia. 
Una detenzione di sette giorni per lui, oppresso da una madre ottusa ed ansiosa, e per lei decisa a disintossicarsi dall’eroina.

Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco in 'Io e te' 

Pur essendo fratellastri sono cresciuti l’uno lontano dall’altro, non si conoscono e apparentemente sembrano opposti e distanti. 
Questi moderni Hansel e Gretel, abbandonati nel bosco, dovranno uccidere la loro strega interiore e ritrovare la strada di casa.  
Entrambi incompresi e in conflitto col mondo degli adulti visto con molta distanza da quello degli adolescenti. 
Entrambi smarriti e autodistruttivi. Lorenzo con la sua misantropia cerca nella solitudine, nel stare bene e al sicuro con se stesso, una dimensione ideale ma pericolosamente alienante. 
E’ più interessato alla vita di insetti e animali che a quella degli esseri umani, gli altri non gli servono. 
Olivia è una tossicodipendente piena di rabbia e fragilità nei confronti della famiglia, affamata di quell’amore che un padre distante gli ha sempre negato.  
Entrambi artisti perché Lorenzo inventa bizzarre storie, a sfondo apocalittico, che sembrano sceneggiature di film e Olivia è una fotografa, si esprime attraverso l’autoscatto. Si ritrae mimetizzando il suo corpo dietro oggetti, si trasporta dietro metaforici muri per cambiare il punto di vista sul mondo o ,viceversa, cambiare quello dello spettatore su di lei. 
Negli scatti in b/n la vediamo dietro un lampione della luce con le braccia che sporgono fuori come se facessero parte dell’oggetto, oppure confondersi tra una serie di vestiti appesi. 
Il lavoro fotografico di Olivia che vediamo nel film è l’autentico percorso artistico di Tea Falco che nella vita oltre ad essere attrice è anche un’artista che concentra la sua ricerca fotografica, performativa e video sulla propria immagine.

Tea Falco in 'Io e te' di Bernardo Bertolucci

Bernardo Bertolucci continua ad essere un regista in piena evoluzione a cui piace raccontare la vita attraverso uno sguardo sedotto dalle giovani generazioni e da quel progetto rivoluzionario tra onnipotenza e fragilità che li accompagna. 
Immancabile quell’appendice visiva legata al passato e alla storia del cinema. 
Nello scorrere del tempo i vecchi personaggi dei suoi film ritornano e si sovrappongono nei turbamenti dei nuovi. 
Lorenzo e Olivia come Matthew, Theo e Isabelle di The Dreamers , anche se più disincantati e meno infarciti di idealismi sessantottini. 
Ancora una coppia a confronto. 
Questa volta gli effetti sono meno devastanti rispetto agli amanti di Ultimo tango a Parigi o alla coppia madre e figlio in La luna
Anche i luoghi ritornano sotto nuove sembianze, come bagaglio indispensabile che si trascina di film in film. 
La cantina di Io e te sembra essere raccoglitore primigenio di tutte le atmosfere degli interni bertolucciani.  
Comprime in sé, tutte quelle abitazioni cavernose, quelle camere sfatte in penombra colme di chincaglierie, dense e consumate di odori e vite vissute. 
Lorenzo e Olivia discutono, dormono, mangiano su mobili e oggetti che provengono dal labirintico appartamento parigino di The dreamers, da quello disabitato di Ultimo tango a Parigi fino agli interni di Il Conformista, evocato dagli abiti trovati in un
vecchio armadio da Olivia.

Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco in 'Io e te'

Tutto si svolge nel buio sotterraneo, la città è completamente sfuocata, immobile rumina sullo sfondo. 
Non sembra neanche così importante capire che ci troviamo a Roma nel quartiere Parioli. 
Quindi una scelta molto diversa da quella fatta anni prima per il film La luna, in cui il protagonista scopriva e viveva intensamente il rapporto con la città eterna rincorso dalla madre e in cerca della figura paterna.
All’alba del settimo giorno ricompare la città. La liberazione. 
Si esce alla luce. I due ragazzi lasciano il rifugio e  dopo le reciproche promesse si separano. 
Nel racconto di Ammaniti il personaggio di Olivia muore per overdose mentre nel film è lasciata una speranza.
La possibilità per entrambi i ragazzi di riuscire a proseguire, con nuova energia, le rispettive vite.
Io e te è un piccolo scrigno in cui Bertolucci racchiude tutto il suo amore per il cinema, la sua storia registica, il suo sguardo introspettivo, l’ossessione per la Nouvelle Vague a cui non può fare a meno di dedicare l’ultimo fotogramma del film, col fermo immagine sul volto di Lorenzo che guarda in macchina come Jean-Pierre Lèaud faceva nel finale di I quattrocento colpi di Truffaut, suggerendo l’idea di un cammino in evoluzione con una nuova consapevolezza acquisita. 
Lo sguardo del personaggio che incontra quello del pubblico. 
Contemporaneamente rivelatore della finzione cinematografica e di un’ incursione nella realtà.

giovedì 9 aprile 2020

L'ARTISTA MALEDETTO #2: 'I colori della Passione', di Lech Majewski

I COLORI DELLA PASSIONE (2011) di Lech Majewski


La tela che diventa schermo
di Maddalena Marinelli

L’occhio di Pieter Bruegel osserva la vita con lucida spietatezza.
Coglie i particolari più insignificanti della cultura popolare trasformandoli in tracciati simbolici. 
Visionario come Hieronymus Bosch,  ama ritrarre i vizi della società in cui vive, il degrado morale dell’individuo, gli istinti più bassi attraverso un immaginario demoniaco e folle che rigetta uno strabordante Inferno sulla Terra. 
Così il pittore tra il tragico e il grottesco inventa il suo esclusivo universo fatto di contaminazioni tra il mondo umano e quello animale. 
Un’emorragia onirica di mostri immaginari che invadono e sovvertono il quotidiano accanendosi sull’uomo.  
A questo incredibile visionarismo, Bruegel,  riesce a contrapporre un rigorosissimo realismo, un’attenzione per l’essenzialità dell’esistenza umana. 
Nel dipinto La salita al Calvario del 1564 il pittore fiammingo rinuncia al fantastico, spegne ‘i suoi effetti speciali’ affidandosi solo alla meccanica delle azioni umane e all’immanenza della natura che sovrasta l’individuo.
Affronta una tematica sacra raccontando fatti concreti e attualizzando le vicende del Cristo. 
Una grande cartografia dell’umanità.

'La salita al Calvario', dipinto di  Pieter Bruegel il Vecchio, 1564

In un enorme campo lungo vengono distribuite svariate microscene con più di 150 personaggi in cui non c’è un protagonista. 
Il Cristo è posto al centro della composizione nel momento in cui cade sotto il peso della croce ma quasi scompare nel magma del popolino indifferente. 
In questo modo Bruegel oltre a stimolare lo spettatore ad un osservazione attenta, sui contenuti nascosti dell’opera, vuole sottolineare l’insensibilità dell’animo umano, la sofferenza dell’abbandono, l’esser lasciati soli e dimenticati.
Come nasce un dipinto di questa complessità narrativa? Quali sono i riferimenti a cui s’ispira l’artista per la sua creazione? Quali sono le storie e gli stati d’animo nascosti dietro ad ogni personaggio?
Il regista polacco Lech Majewski, attraverso I colori della Passione/ The Mill and The Cross, prova a rispondere a tutti questi quesiti attirando letteralmente lo spettatore all’interno dell’opera La salita al Calvario e ricostruendo il suo processo creativo.
Oltrepassiamo il confine di quel punto di vista alto e lontano impostoci dal pittore fiammingo ritrovandoci dentro l’opera a scorgere in primo piano alcuni personaggi.
Attraverso una lenta carrellata orizzontale seguiamo l’artista che immagina il suo dipinto ancor prima di iniziare i bozzetti. 
Ne discute col suo amico e collezionista d’arte  Nicholas Jonghelinck. 
Come un regista sul set si aggira tra i personaggi, sistema le vesti e le posizioni in un grandioso tableau vivant.
"Il mio dipinto dovrà raccontare molte storie, ed essere grande abbastanza da contenere il tutto!" (P. Bruegel)

'I colori della Passione' di Lech Majewski

Si prosegue col risveglio del mattino entrando nella vita di alcuni personaggi e in quella dello stesso pittore sullo sfondo di una realtà storica particolarmente difficile.
Guerre, saccheggi, miseria e i fermenti provocati dalla Riforma Protestante. 
Le Fiandre erano tiranneggiate dalla brutale occupazione spagnola. 
La nostra guida sarà sempre Bruegel interpretato da Rutger Hauer che si muove tra la realtà e la dimensione immaginaria del suo dipinto, svelandoci le sue simbologie. Oscuri presagi di morte come i corvi, i teschi di animali , la macabra ruota issata sull’altissimo palo dove venivano lasciati seccare i cadaveri degli uomini giustiziati. 
Il mulino che dall’alto di una rupe domina sulla composizione come 'occhio di Dio'. Secondo Bruegel: “ Il Grande Mugnaio del cielo che macina il pane della vita e del destino".

'I colori della Passione' di Lech Majewski

Nel dipinto originale possiamo vedere il mulino solo all’esterno. 
Nel film Majewski inventa e ci mostra il suo enorme interno buio e cavernoso. 
Il possente meccanismo che lo fa muovere sembra animare l’intero universo e l’ordine del tempo col suo piccolo guardiano che controlla il lavoro delle pale. 
Dopo gli scorci sulla vita della coppia di contadini, dell’eretica, dei bambini, dei minacciosi soldati spagnoli si ritorna ossessivamente, ciclicamente, sempre al grande tableau vivant in cui prosegue la vicenda del Figlio di Dio visto come un riformatore condannato per eresia. 
Insieme alle altre storie si svolge anche la sua in tutte le tappe che lo condurranno fino alla crocifissione.
Così l’opera è nella vita e la vita è nell’opera.
Quando tutto infine è compiuto, il ciclo si spezza e il viaggio è giunto alla sua conclusione. 
Usciamo dal sogno con una lenta carrellata all’indietro. 
Ricompare il dipinto originale nelle stanze del  Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Un’opera filmica basata sul libro The Mill and The Cross scritto dal critico d’arte Michael Francis Gibson, sul consolidato visionarismo registico di Majewski e sulle più innovative tecnologie di computer grafica e 3D.
Inizialmente era destinato ad essere proiettato nei musei ma dopo il Sundance Film Festival 2011 è stato acquistato da 55 Paesi e quindi passato alle sale cinematografiche. In Italia è stato distribuito solo in 20 copie.
Majewski è un incredibile concentrato di tutte le arti. Poeta, saggista, compositore, regista cinematografico e teatrale.
Già in passato attento indagatore dell’anima e dell’opera di colleghi artisti come in The Garden of Earthly Delights vincitore nel 2004 del Grand Prix al Festival Internazionale del Film di Roma  o Basquiat di Schnabel di cui firmò la sceneggiatura. 
Capace di manipolare il visionarismo e il gioco del tableau vivant non solo in chiave poetica ma anche più ironica come nella commedia surreale Angelus o in Gospel According To Harry che risente della permanenza negli Stati Uniti.

'I colori della Passione' di Lech Majewski

Le sue opere cinematografiche si contraddistinguono per l’evento imprevedibile (epifanico) generato da una grande ricercatezza estetica surreale disseminata di elementi simbolici che riescono a creare un’efficace narrazione. 
Una bellezza visiva ipnotica, un’occasione per osservare intimamente e riflettere attraverso un’immagine riccamente colta che simultaneamente è cinema, teatro, pittura, poesia e video installazione. 
Vittima sacrificale di questa scelta artistica è l’interpretazione attoriale che viene inevitabilmente repressa non trovando più spazio e motivazione. 
L’attore ha la stessa importanza di un elemento scenico è un abitante costipato di un tableaux vivent. La sua recitazione è alienata e il suo corpo diventa un tassello nella complessa costruzione figurativa. 
Così rimangono congelati, in un immobilismo etereo, i volti di Rutger Hauer, Charlotte Rampling e Michael York. Perfettamente confezionati per un museo delle cere.