mercoledì 21 novembre 2012

"Valmont" e "Dangerous Liaisons" a confronto


L’opera di Choderlos de Laclos nelle mani di Milos Forman e Stephen Frears
di Maddalena Marinelli

Vendetta e passione. In questo pericoloso gioco tra la Marchesa e il Visconte il risultato è la distruzione. Lui muore suicida in un duello, lei annientata dal suo stesso disfacimento morale. Per entrambi la paura dell’ammissione dei loro veri sentimenti si rivela una trappola spietata. Due personaggi che si rincorrono per tutta la vicenda; si sentono complici, dominatori e manipolatori impietosi; compiaciuti del loro operato per soddisfare la propria vanità. Pensano di essere potenzialmente una coppia perfetta di amanti e invece proprio questo complicato-perverso ambire l’uno all’altro azionerà un moto inarrestabile fino all’estrema conseguenza.
Unica opera di Choderlos de Laclos. Marito modello e padre esemplare, scrisse questo romanzo epistolare per “..divulgare la verità che non esiste felicità fuori della famiglia, lettere raccolte in una società e pubblicate per l’istruzione di alcune altre”. Amato da Maria Antonietta, Andrè Gide e Baudelaire Les Liaisons Dangereuses può essere inteso sia come un atto di accusa contro i costumi della nobiltà cortigiana ma anche come un sofistico trattato sulla seduzione. Arriva al cinema in diverse trasposizioni; tra le più celebri e meritevoli di attenzione quelle di Milos Forman e di Stephen Frears.
I due film escono ad un anno di distanza l’uno dall’altro; propongono scelte e punti di vista molto differenti sullo svolgimento della vicenda e sulla dinamica dei personaggi. Milos Forman intitola il suo film Valmont (1989) liberamente tratto dal romanzo. Più che dramma un lietmotiv. Incentra la trama dall’inizio alla fine sul personaggio del dissoluto Visconte interpretato da Colin Firth. Un gradino sotto di lui troviamo la Marchesa di Merteuil interpretata da Annette Bening deliziosamente intrigante, a cui infondo non è data una grande importanza e non si conferisce quella sua innata malefica arte nella manipolazione.  Le colpe ricadono sul seduttore che alla fine pagherà da solo convergendo valori, nefandezze e punizioni tutte sul personaggio maschile. Mancano alcuni importanti snodi narrativi per rendere credibili ed accendere il gioco delle vendette trasversali.  Forman veniva dal grande successo di Amadeus un film straordinario, ricco di passione e ritmo febbrile.
In quest’altro ci allieta gli occhi sempre con un’ impeccabile estetica, una vellutata fotografia, lo stile romantico e aggraziato ma Valmont rimane un perfetto scrigno vuoto, monotono e intarsiato da un brioso rococò. Soprattutto una sceneggiatura didascalica con molte incrinature. Personaggi congeniati bene ma solo di facciata, dalla debole sostanza e poco stimolanti. Attori all’altezza ma lasciati inespressi nelle loro potenzialità.
Guidato da uno spirito più sadico e crudele, Dangerous Liaisons (1988) vanta un cast d’eccellenza ma questo non può da solo fare un film ben riuscito. Qui c’è la regia analitica e plumbea di Stephen Frears e la meritatamente premiata sceneggiatura di Christopher Hampton con i suoi superbi dialoghi. Un meccanismo perfetto, un puro concentrato di tutti i sentimenti umani: Gelosia, Vanità, Lussuria, Invidia, Crudeltà, Pietà, Vendetta, Ira, dosati con sapienza. Abbiamo un’ Eva tentatrice e un Adamo che l’asseconda. Il film si poggia interamente sui due personaggi interpretati splendidamente da Glenn Close e John Malcovich, un superbo esempio di amicizia malefica.
Interagiscono perfettamente contendendosi lo spazio mossa su mossa su un’invisibile scacchiera.  Inizia con la scena della vestizione che sintetizza lo status simbol dei nostri due concorrenti. Si presentano agli spettatori preparandosi alla partita.
Un estetica fredda e sontuosa, precisa e capillare nella descrizione degli interni. La macchina da presa persevera su John Malcovich espressivo e sfrontato nell’autorità con cui tiene i primi piani. Di fronte a lui il Valmont di Colin Firth diventa un amorevole agnellino. Le scene si susseguono in un ritmo frizzante e festoso ma si balla sul baratro. Nella seconda parte si scivola dolcemente verso un tragico epilogo in cui vengono distribuite le giuste punizioni. Dangerous Liaisons rimane molto fedele all’opera di Choderlos de Laclos che però fu ancora più crudele nel finale, dove oltre la morte di Valmont e quella di Madame de Tourvel infligge il vaiolo alla Marchesa de Merteuil a cui sopravviverà ma con il volto sfigurato.
Nel film di Forman c’è una partitura esattamente contraria; si inizia seriosamente per concludere nella leggerezza. Anche la morte del protagonista non desta molta commozione e dopo un funerale è già pronto un matrimonio.
Frears realizza un intreccio più torbido e bizantino trasportando l’azione sotto una luce da intrigo odierno nonostante si tratti di un film in costume ambientato nel Settecento. Non a caso ripeterà un intreccio simile nel suo successivo film  Rischiose abitudini. Riusciti anche i ruoli delle caste e innocenti Uma Turner e Michelle Pfeiffer che da sedotte e abbandonate faranno in seguito una carriera cinematografica da eccellenti cattive ragazze.
Frears non dimentica che in origine si tratta di un romanzo epistolare. Nel film c’è un costante svolazzio di lettere come se fossero carte da gioco. Scivolano dalle mani dei nobili a quelle della servitù corrotta; vengono lette, rubate, riscritte alla fine degli amplessi sul corpo-scrittoio delle amanti, usate e abusate come armi di seduzione. Ma sono lame a doppio taglio, infine diventano la prova delle malefatte e custodi della verità.
Valmont termina con la scena corale del fastoso matrimonio tra Cecile e il conte di Gercourt al cospetto dei sovrani in un’atmosfera di luminosità, fasti e falsità.


Per Dangerous Liaisons il memorabile assolo finale di Glenn Close che si strucca il volto mostrando finalmente la sua debolezza, facendo cadere la gelida maschera della cattiveria diventando inerme di fronte alla verità, sconfitta dalle sue stesse macchinazioni concepite per inseguire un malsano concetto di donna al potere.

sabato 13 ottobre 2012

"Caravaggio", di Derek Jarman


Jarman/Caravaggio dentro lo stesso malessere esistenziale
di Maddalena Marinelli 

Nella prigione di un corpo malato e agonizzante ‘Michele delle ombre’ evade nel ricordo, ripercorrendo la sua vita segnata da genialità e sregolatezza.
Non è morente sulla spiaggia di Porto Ercole, si trova disteso in un letto all’interno di una casa assistito dal suo giovane servo Jerusalem, compagno della sua solitudine, testimone muto della sua esistenza.
Personaggio creato per consolare ed  assistere senza la possibilità di emettere giudizio.
La malattia è una costante nell’anima e nella carne. Nella sofferenza sembra che la creatività si intensifichi e diventi l’unico scopo da inseguire fino alla morte.
Inevitabile specchio, riferimento autobiografico. Derek Jarman scopre di essere sieropositivo nel 1986. Lotterà contro la malattia fino al 1994 continuando, nonostante le gravi complicazioni derivanti dall’AIDS, la sua attività registica e sostenendo le lotte contro la legislazione anti-gay.
Jarman oltre ad essere un regista è anche un pittore e in questo c’è un’altra congiuntura d’immedesimazione con l’artista lombardo.
Il film Caravaggio esce proprio nel 1986 dopo sei anni di gestazione.
E’ un ritratto immaginario, una personale lettura di Michelangelo Merisi ma fedele alla sua personalità e alle sue emozioni più nascoste.
Si snoda sul doppio binario pittura e amore, giocando sulla continua citazione di gesti, movimenti, luci rubate al possente visionarismo caravaggesco.
La sua vita reale, a confronto, sembra un debole appiglio temporale di fronte a quello che poi lo renderà immortale. Ecco perché il regista si permette di stravolgere e ricreare gli eventi, per riuscire a focalizzare ed attualizzare in modo più efficace l’indole dell’artista.
Jarman attraverso il suo cine-teatro dipinge Caravaggio prima come un ragazzo di strada bello e dannato che si prostituisce per poter dipingere e poi da adulto lo trasforma in un ambiguo dandy ottocentesco sotto la protezione del Cardinal del Monte.
Le improvvise e fugaci incursioni moderne come luce elettrica, motociclette, macchine da scrivere, riviste, provocano un black out nel decorso delle immagini. Un senso di finzione  che si vuol dichiarare allo spettatore.

Perché qui non è importante raccontare correttamente una storia, informare sugli eventi.
Il meccanismo è stato aperto, lo scopo è di esprimere libere considerazioni su Caravaggio, rendere attuale la sua poetica e i suoi turbamenti interiori.
Uno spirito creativo che osa sulla riflessione e l’indagine attraverso il linguaggio cinematografico.
La chiave di lettura verte sull’esplicita sessualità usata come merce di scambio che nasconde una feroce ricerca dell’affettività.
I personaggi sono espressi più dal corpo che dalla parola. Ognuno è definito da un pathos estetico essenziale, ben studiato, che lo racconta perfettamente.
L’unica voce che s’impone per tutto il tempo e riassembla il passato col presente è quella fuori campo dello stesso artista che sembra echeggiare dal suo letto di morte, per raccontarci la sua storia prima che sopraggiunga il silenzio della fine.
Sguardi intensi e provocanti rubati ai giovani soggetti dipinti da Caravaggio dalla spavalda fisicità sensualmente volgare.
Ragazzi di strada incontrati in una Roma popolana in cui lui stesso s’immergeva quotidianamante, dividendosi tra la frequentazione delle imbalsamate corti dimore dei suoi illustri committenti e le bettole malfamate dove assaporava la violenza delle passioni. Si sporcava con quel sangue che poi trasmutava in pigmento sulla tela.
Sempre sul limite tra vita e morte. E’ la vitale crudezza dell’essere da descrivere cronisticamente senza alternative. Quella vita violenta di nessuna speranza nessuna paura che arriverà fino a Pasolini.
Ricchezza e povertà si mescolano  nella scena della festa in maschera in un rituale di seduzione e morte celebrato dal Pontefice-Satiro sullo sfondo del memento mori.
Un personaggio curioso è il critico scettico che tratta con cinico snobbismo le opere di Caravaggio. Lo ritroveremo protagonista in un tableaux vivants ispirato alla Morte di Marat di Jacques-Louis David, concentrato a scrivere una stroncatura sull’opera “Amore Vittorioso” .
Non è concesso sapere se gli sarà riservata la stessa fine del rivoluzionario francese pugnalato a morte in una vasca da bagno. Una frecciata rivolta alla categoria della critica?
Non esistono esterni. Nel film le azioni si svolgono tutte in una continua successione d’interni metafisici che richiamano il tipico spazio caravaggesco.
Un vuoto mistico. Per accogliere Dio bisogna svuotarsi di tutti gli elementi terreni.
Fondali scuri, rosso, ruggine, terra bruciata su cui si susseguono tableaux vivants fino a quello finale della Deposizione, dove il corpo del Cristo diventa quello del Caravaggio morto, osservato dal se stesso bambino che inconsapevolmente assiste ad una premonizione del suo futuro.
Jarman non  sfrutta un semplice flash back. I piani temporali si stratificano prendendo in considerazione anche la dimensione onirica. Tutto si ricongiunge in un moto ciclico di Nascita- Morte-Rinascita che rispecchia il valore mitico dell’artista che non può avere una fine fisica ma persiste contaminando per sempre il percorso della storia.



  




lunedì 10 settembre 2012

"Reign Over Me", di Mike Binder

Effetti post-11 settembre
di Maddalena Marinelli

In un giorno qualunque, un’incomprensibile tragedia annienta la tua vita e l’unica via di fuga accettabile per la sopravvivenza è perdersi nell’ abuso d’oblio. Tutto questo finchè qualcosa d’inatteso ci afferra costringendoci a riemergere da quelle acque profonde.
Ecco l’abisso in cui è caduto Charlie Fineman; un uomo che gira di notte per le strade di NewYork col suo monopattino a motore , non si separa mai dalle sue cuffie con cui ascolta solo musica anni 70 e si dedica ossessivamente al gioco elettronico Shadow of the Colossus.
Queste sono le fragili difese che si è costruito per sfuggire da un dolore insostenibile. Così rifiuta la drammatica realtà in cui sua moglie e le sue figlie sono morte in uno degli aerei kamikaze dell'11 settembre.
Adesso in una casa vuota anti-ricordi, lui sopravvive a suo modo alienandosi in un mondo di passatempi adolescenziali e di strane manie ossessive di cui in seguito scopriremo il significato.
Nella stessa città un altro uomo vive  la routine tra lavoro e famiglia. Sopporta con sottomissione i pazienti viziati del suo studio dentistico mentre i suoi soci lo trattano come un dipendente. La situazione si ripete anche a casa dove delega alla moglie ogni tipo di decisione. Questo è il ruolo che Alan Johnson si è lasciato imporre da tutti gli altri.
I due sono stati  amici al college e il destino adesso ha deciso di far rincrociare le loro vite per uno scopo preciso: guarirsi a vicenda. L’uno racchiude la cura per l’altro, la possibilità di un cambiamento. Per entrambi non sarà facile riesumare la propria identità.
In apparenza quello messo male sembra Charlie che presenta una sindrome da stress post-traumatico. Alan decide di aiutarlo ma in realtà per lui il mondo di Charlie si rivelerà un provvidenziale canale di fuga dal virus della repressione.
Anche la moglie ne sarà consapevole  dicendogli: “Tu concupisci la sua libertà” e lo stesso Charlie stremato da ricordi dolorosi, tentativi di suicidio, ricovero in clinica arriverà a dirgli con disarmante lucidità: “Io sono più preoccupato per te Alan”.
Un congegno emotivo basato sull’interazione benefica  tra  due personaggi che ricorda  il rapporto  tra i fratelli Babbit in Rain Man oppure tra il ragazzo down e il manager stressato di  Le huitième jour o  tra il guardiano di condominio Cleveland e la ninfa Story in Lady in the Water ma soprattutto The Fisher King anche se Terry Gilliam è al polo opposto di Mike Binder.
Surrealismo in The Fisher King dove le minacciose allucinazioni visive causate dalla schizofrenia di Parry non sono confortanti e si proiettano sulla realtà esterna permettendo al regista di scatenare il suo tipico visionarismo.  
Realismo in Reign Over Me dove l’immaginario in cui Charlie evade convoglia in un gioco delimitato solo nello spazio di uno schermo televisivo, lasciando ben chiaro il contrasto e l’interruzione con un mondo esterno che continua sempre la sua normale vita nonostante i tragici eventi che infieriscono sull’uomo.
In tutto questo cosa c’entra l’attore Adam Sandler? Siamo abituati a vederlo in ruoli leggeri o demenziali eppure riesce ad essere assolutamente credibile, azzeccato nel ruolo di Charlie.
Mike Binder scrive, dirige e produce  un film dalla narrazione essenziale come lo sono i movimenti di macchina. Il suo cinema mira con pacata determinazione a  spogliare l’immagine da qualsiasi zavorra ammaliatrice esplorando, senza enfasi, nelle ferite della nostra sfera intima.

martedì 21 agosto 2012

"Sorelle Mai", di Marco Bellocchio



Un perfetto folle dialogo tra realtà e finzione
di Maddalena Marinelli



Nel film I pugni in tasca del 1965 l'istituzione familiare veniva distrutta dai suoi stessi componenti come atto simbolico di ribellione verso le convenzioni morali e sociali borghesi. Nel 2010 in Sorelle Mai la famiglia si ricompone in un'atmosfera confortante di provincia e diventa rifugio, salvezza dalle insidie del mondo, ossario della memoria, rimanendo  pur sempre castratrice di sogni.

Secondo un’antica credenza pagana ogni luogo è protetto da un nume tutelare.
Uno spirito inquieto fautore di quell’aura metafisica dove convivono, in perenne stato di sospensione, tutti gli avvenimenti passati legati ad un luogo.
Bellocchio è il predatore del genius loci. Lo insegue da sempre nel luogo d'infanzia, nel luogo della storia, nel corpo dell'attore.  Lo aspetta dietro la macchina da presa affinchè possa esercitare i suoi poteri sull'intero film.
La sua operazione inizia di solito  nel rifarsi ad un testo per poi elaborare un percorso assolutamente contro il testo sovrapponendo una fitta trama di suggestioni, di indizi metatestuali, d' innesti introspettivi spesso autobiografici sempre con una grande nitidezza della visione concettuale. Lascia allo spettatore diverse chiavi di lettura da ricercare nella storia collettiva o individuale e nelle profondità dell'inconscio con risultati di emozione, riflessione e a volte incomprensione.
Ma può esserci davvero una “zona emotiva”, condensatrice di memoria che stagna all’interno di uno spazio fisico?
Un altrove perturbante assopito nella pietra e nella polvere, un sottile sentore che nell’attimo stesso in cui il nostro occhio l’afferra ci sfugge ritraendosi come un’ombra cacciata dalla luce, come l'immagine delle due zie, le sorelle Mai, che si dissolve nell'attraversare il corridoio della casa di famiglia. Spariscono per ricomparire in altro spazio e in altro tempo o si trasformano nello spirito stesso del luogo, condannate a non potersene allontanare 'mai'; nel film sono le figure che incarneranno il flusso di coscienza.
Ci sono le zie e l'amico di famiglia "i miti" che sono legati al passato, trattengono a sè e poi i "rapaci" i due nipoti che negli anni non fanno altro che arrivare e partire. Giorgio e Sara che vivono nel presente tra sogni, inquietudini e frustazioni in eterno conflitto con il luogo di nascita che si vuole abbandonare e dove però si ritorna sempre nell'impossibilità di annullare questo legame con la casa infernale/ospitale.
Elena, la bambina, è la vita in crescita, il futuro, il personaggio più vicino allo stato dello spettatore. Attraversa gli avvenimenti e il tempo nella sua impotenza nel decidere e nell'agire. Lei segue, è sempre presente e infine forse arriverà un tempo in cui giudicherà.
Dove tutto si trasforma nell'arco di quasi dieci anni, immutabile rimane solo la veduta dell'antico fiume Trebbia che infine perde la sua limpidezza; diventa maligno e spettrale facendo sparire Gianni Schicchi vestito in frac.Un'altra smaterializzazione, un rito del passaggio.

Sorelle Mai nasce all'interno dei corsi di Fare Cinema a Bobbio, condotti da Marco Bellocchio nei periodi estivi tra il 1999 e il 2008.
"Un film per caso che non poteva essere più condizionato e nello stesso tempo più libero" (M.Bellocchio)
L'idea è nel filmare il reale e unirlo con la finzione. Far diventare personaggi per caso i componenti della famiglia Bellocchio e farli interagire con attori veri ricomponendo una vicenda e una coesione emotiva. Assolutamente un magico ibrido sodalizio.
C'è creazione ma molto è anche fatto di distruzione e queste regioni di rovina lo spettatore non può vederle perchè la loro funzione è proprio quella di non essere viste e di agire invisibilmente.
Unire atmosfere di vita quotidiana, zaffate di memoria, messa in scena con l'appoggio spirituale di Cechov.
Ci sono i frammenti del suo primo film I pugni in tasca ma l'ombra del Gabbiano compare nella locandina di Sorelle Mai come lo spettro di Nina e Irina coesistono in Sara e quello turbato e autodistruttivo di Kostja si proietta in Giorgio.
Quella rabbia giovane come bisogno profondo di modificare la realtà viene trasformata in energia più pacifica ma sempre intuitivamente critica sul malessere dell'anima delusa dal mondo reale.
Quest'opera ci fa riflettere sulla grande necessità di sperimentazione in un momento in cui il cinema italiano sembra perseverare, con la benedizione di tutti, sulla prolificazione della commedia d'evasione che lascerà solo dei bei buchi vuoti.
Marco Bellocchio inquietamente rimescola ancora una volta le carte del suo cinema, dopo Vincere con Sorelle Mai ritorna ad una riflessione intima, una necessità di resettare per ricominciare forse verso qualcos'altro, intenzione già intuita e poi lasciata sospesa ne Il regista di matrimoni in cui metteva in crisi la condizione professionale del cineasta.
Nel suo ultimo film la riflessione va oltre diventando più viscerale, ritorna ancora una volta alle origini cercando nuove modalità d'espressione.
Così il suo cinema ogni volta riesce a stupirci sfuggendo sempre ad ogni definizione o ambendo a concentrarle tutte.
Muta sempre la sua pelle con consapevolezza del presente, con rielaborazione del passato e con la voglia di rimettersi sempre in gioco nel futuro. Gli artisti producono significato soprattutto quando tentano di annullare il significato dato. 

giovedì 2 agosto 2012

"Life lessons", di Martin Scorsese


Quella benedetta insana passione che unisce furor creativo e sentimentale.
di Maddalena Marinelli

Una New York fortemente bohémien che richiama gli anni dei fervori artistici di Pollock e della beat generation. Il primo episodio di New York Stories, il film dove Scorsese insieme a Francis Ford Coppola e Woody Allen rende omaggio alla Grande Mela e ai suoi drammi del cuore. Ad uscire vincitore dal confronto, sembra proprio Scorsese capace in poco più di mezz'ora di regalarci un concentrato di stile, tecnica ed intensità emotiva.
"Come tutte quelle donne che vissero per qualche tempo accanto ad un uomo famoso sarò ricordata soltanto perché fui amata da Dostoevskij. Io non gli perdonai di avermi usata solo per placare la sua disperazione" così scrive nel suo diario Apollinarija Suslova giovane amante del grande romanziere russo. Polina si sentiva «usata» come strumento di piacere dallo scrittore, che per lei, come per altri della sua generazione, era allora un idolo. La donna in un breve soggiorno a Parigi s'innamorò di un bellimbusto spagnolo che ben presto si stancò di quel legame, la Suslova così ritornò da Dostoevskij ma infine rifiutò la sua proposta di matrimonio lasciandolo definitivamente. Scorsese in Life Lessons riprende esattamente questa vicenda proiettandola nell'ambiente artistico newyorkese degli anni Ottanta. Una turbolenta storia d'amore in cui le parti di vittima e carnefice si rovesciano continuamente.
La macchina da presa è dentro Lionel Dobie, percepiamo tutta l'oppressione del suo stato d'animo, la sofferenza, l'insicurezza, il palpito del suo cuore esplodere assordante sul tormentone sonoro di A whiter shade of pale dei Procol Harum. Attraverso la soggettiva lo viviamo mentre pennellata su pennellata crea le sue opere e controlla ossessivamente Paulette nell'estremo tentativo di legarla a sé attraverso il continuo contatto visivo nella crescente paura che, perdendola di vista, svanirà per sempre anche la sua preziosa ispirazione creativa. L'inquietudine dei personaggi è affidata puramente all'immagine, attraverso una partitura tecnica su forti contrasti tra rallenty e improvvise zoomate.

Quando le fisime dell'artista aumentano il cineocchio-feticista diventa mirino, perversando sui details del corpo di Paulette.
Lionel è consapevole che non potrà riuscire ancora per molto a trattenere la ragazza e su questa paura Scorsese riesce a far scivolare lo spettatore in una crescente suspense costruita a regola d'arte, premonitrice di una possibile conclusione tragica ma è solo un abile finta, niente finale alla Taxi Driver, preferisce spegnere tutto nella catarsi artistica del fastoso vernissage. Una chiusura circolare e tutto ricomincia con una nuova protagonista femminile; nuova immagine da frazionare per nutrire il voyeurismo del cineocchio e quello di noi spettatori nascosti nel buio.
Una vigorosa tragicommedia affidata ad una valente coppia di attori: un Nick Nolte scapigliato, tragico, fragile, buffo e una Rosanne Arquette seducente, insicura, sfuggente.
Anche senza gangsters, ambiente italo-americano ed estetica della violenza, Scorsese riesce a dare una grande lezione di regia. Con fermezza trascina emotivamente lo spettatore nella vicenda, dimostrando sempre di essere un acuto osservatore dei malesseri sociali. Sofferma allungo l'inquadratura sull'espressività, la bellezza e la fisicità del gesto pittorico come se si trattasse del terzo protagonista del film, enorme specchio dell'anima in cui l'artista si osserva con smarrimento.
Life Lessons decanta la passione, riunendo perfettamente le due anime del regista. Preannuncia quel neoviscontiano virtuosismo formale e tecnico che perseguirà con sempre più incalzante rigore in Goodfellas, Cape Fear, Casinò fino a Shutter Island e conserva quella carica irrequieta, passionale, imprevedibile dei suoi primi successi Who's That Knocking at My Door, Mean Streets, Fuori orario.
Stranissimi influssi in questo film arrivano anche dalla vicinanza del collega Woody Allen che sembra aver prestato a Scorsese uno dei suoi tipici artisti-scrittori newjorkesi in avanzato stato di crisi sentimentale-creativa, impegnati in nevrotici conflitti col genere femminile.