martedì 5 marzo 2013

"Caro Michele", di Mario Monicelli


Quel fascino malaticcio della borghesia
di Maddalena Marinelli

Caricature di uomini come Monicelli amava ideare e sempre fin troppo veri.
L’ultimo atto di una borghesia stanca e decadente vista attraverso il ritratto di una famiglia smembrata, (ri)composta da una moltitudine di personaggi che il regista rende inafferrabili e aleatori. Buttati addosso allo spettatore senza il tempo di capire nemmeno bene chi siano si moltiplicano continuamente tra madri, padri, zie, figli, amici, amanti. Vediamo il loro re morente, il capo famiglia, che agonizza dando le ultime disposizioni dal suo letto/trono circondato da inutili ricchezze. Cerca come conforto quel suo unico erede maschio ormai perduto dietro a moti rivoluzionari, inghiottito da quel mondo che voleva cambiare.  Volti femminili di fine porcellana contrapposti a volti maschili unti e rozzi sprofondano insieme in un liquame affettivo in cui ormai le emozioni si sono dissolte per sempre ed è calato uno strano abbandono nel tempo andato.
Tutti legati ad un protagonista che rimarrà esiliato fuori scena.
Il fantomatico Michele anch’esso indefinibile occupa l’assenza ed è già aldilà rispetto a tutti gli altri. Impossibile dargli un ruolo poichè si sottrae continuamente alla sua funzione di personaggio. Forse figlio, forse padre, forse rivoluzionario, forse artista, forse omosessuale. Chi è Michele? L’immagine di Michele si ricompone, nell’occhio dello spettatore, unicamente attraverso frammenti di memoria altrui negandosi alla macchina da presa. Fino a quando si materializzerà e ritornerà con gli altri da morto; la sola condizione in cui può riconoscersi in loro.


L’unica fiammata di vita è personificata dalla balorda mina vagante Mara che si muove in un cimitero di morti viventi, in un impassibile deserto emotivo di casa in casa invadendo e scardinando un finto quieto vivere. Rimane un’ incompresa, continuamente in fuga da questo universo d’incomunicabilità in cui tutti curano il proprio bozzolo senza rendersi conto che al suo interno regna il vuoto.
Monicelli getta su tutti una luce cineria e malata che diventa ancora più nera negli interni di case e appartamenti cavernosi, pieni di scale, di quadri, di oggetti che improvvisamente sembrano trasformarsi in ammassi di ciarpame testimonianza di una memoria ristagnante e logora a cui ci si aggrappa sempre più disperatamente perché il presente non conta nulla e nel futuro è troppo difficile immaginare una sopravvivenza. La descrizione della fine di un mondo in cui però non si intravede affatto la luce di quello nuovo. Gli eventi si susseguono senza dare spazio a troppe riflessioni. Le parole dei personaggi arrivano sempre dopo, troppo tardi, condannate a poter intervenire solo sul passato ed impotenti nel presente. Lo stesso Michele non potrà essere mai vigente ma appartenere solo ai ricordi e naturalmente senza un futuro. Dolcezza, malinconia, cinismo si perdono su quella strada che non si sa dove condurrà ma che potrà essere percorsa solo da Mara e dal suo bambino; gli unici autorizzati a varcare la soglia di un possibile ma ineffabile futuro.

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