sabato 22 agosto 2015

L'universo: nell'urlo di una nevrosi infinita






Delirio dal profondo spazio
di Maddalena Marinelli

“Forse che la terra sa cosa accade in quelle stelle lassù, gettate come granelli di fuoco attraverso lo spazio, così lontane che scorgiamo soltanto la luce di alcune, mentre l'innumerevole schiera delle altre é perduta nell'infinito, così vicine da formare forse un tutto, come le molecole di un corpo? Ebbene, anche l'uomo non sa ciò che accade in un altro uomo. Siamo lontani l'uno dall'altro più di quegli astri, e soprattutto siamo isolati perché il pensiero é insondabile.”
(Guy de Maupassant, Solitudine, 1884)

L’uomo e la sfida con l’infinito. L’esplorazione più estrema. L’ignoto.
L’insondabile che risucchia ogni certezze ed apre la porta a dimensioni sconosciute. Una potenza mistica accogliente in cui cullarsi.
Un’entità annientatrice di fronte a cui l’uomo prende coscienza del suo limite.
Una discesa nel buio siderale e nell’oscurità della mente.
Il confronto con l’immensità dello spazio è l’inevitabile confronto con se stessi, con le proprie paure. La possibilità della scoperta di fenomeni sovrannaturali o entità aliene fuori da ogni nostro controllo.
Ed ecco che il luogo più inesplorato, il nemico più oscuro e pericoloso si rivelerà in realtà la mente umana capace di aprire imprevedibili scenari.
Partiamo da due film attuali che hanno affrontato in modo nuovo ed appassionante queste tematiche rilanciando il genere fantascientifico che negli ultimi anni sembrava abbastanza assopito.
Gravity e Interstellar , richiamando 2001: Odissea nello spazio, ricollocano al centro ‘la scoperta di se stessi’, il viaggio cosmico  come trasvolata verso l’anima dell’essere umano.


"Interstellar" (2014)  di Christopher Nolan

In entrambi c’è l’estrema lotta per la sopravvivenza, l’impossibile confronto con l’infinito, la paura che fa compiere atti sleali.
Una fantascienza senza alieni che porta al limite le risorse umane.
L’uomo è solo, alla ricerca di un nuovo mondo da colonizzare o nel tentativo di ritornare a casa sulla Terra.
Sono escluse tutte le implicazioni paranormali.


'Gravity' (2013) di Alfonso Cuaron

L’uomo che riscopre le proprie capacità, la sua forza emotiva, la possibilità di risalita da una crisi, la salvezza da un apocalisse.
Passiamo a film sempre ambientati nello spazio che hanno trattato più direttamente stati di alienazione.
Perdere il controllo, non distinguere più cos’è reale da quello che non lo è, non riuscire a mantenere i confini tra il bene e il male, smarrirsi in un oscuro altrove. 
Sclerare nel profondo spazio nell’urlo di un orrore infinito.


'Solaris' (1972) di Andrej Tarkovskij

Non avvicinatevi a Solaris, altrimenti perderete la ragione.
Durante il sonno, rubando dai ricordi più intimi dei terrestri, il misterioso oceano pensante che circonda il pianeta genera delle ossessioni fatte carne che perseguitano gli umani fino a farli uscire fuori di testa. Crudeli miracoli.
Gli ospiti, persone morte che appartengono al passato, ritornano a vivere ma non sono veri esseri umani ma solo dei duplicati.
“Perchè andiamo a frugare l’universo quando non sappiamo niente di noi stessi?”
Kris Kelvin resterà esiliato nella dimensione del ricordo, nella casa della sua infanzia riprodotta fedelmente su un’isola nell’immenso oceano di Solaris.
Destino non troppo differente da quello di David Bowman in 2001 Odissea nello spazio, condannato a vivere in solitudine nella celebre stanza che compare nel finale o come Cooper in Interstellar finito nel tesseratto. 
Cosa sono e dove sono questi luoghi? Sono creati dagli stessi uomini o da esseri superiori?
Nello spazio cerchiamo il futuro ma vi ritroviamo ossessivamente il passato.
Tarkovskij immerge lo spettatore in un malinconico/filosofico confronto con noi stessi, con le nostre origini, con l’elevazione spirituale, l’arroganza della scienza che conduce all’annientamento.


'Punto di non ritorno' (1997) di Paul W. S. Anderson

L’astronave Event Horizon, svanita nel nulla da sette anni, è misteriosamente ricomparsa nell'orbita del pianeta Nettuno. Oscure forze si sono impossessate della nave spaziale entrate attraverso il suo micro buco nero generato artificialmente  che permette di creare un wormhole. Questo cunicolo spazio-temporale  l’ha condotta ad  una dimensione metafisica  di puro caos e di puro male.
Salvatevi dall’inferno. Un inferno colmo di terrificanti supplizi molto simili a quelli di Hellraiser. L’equipaggio perderà il senno in  preda ad allucinazioni. 
Ognuno comincerà a vedere i propri demoni e le proprie colpe materializzarsi.
L’astronave è come se avesse preso una coscienza perversa nel giocare con tutte le paure e i segreti degli umani a bordo. Dove è stata? Cosa si è trascinata dietro?


'Pandorum - L'universo parallelo' (2009) di Christian Alvart

Il pianeta Terra diventa inospitale, ormai sull’orlo del collasso. Si parte alla ricerca di una nuova casa ma i lunghi viaggi spaziali possono portare a turbe ossessive, ad un delirio chiamato pandorum.
In preda alla disperazione, un membro dell’equipaggio dell’astronave Elysium, dopo aver ricevuto un messaggio dalla Terra che annunciava la fine del pianeta per cause sconosciute, ha rinchiuso gli occupanti della nave nelle stive costringendoli ad una regressione bestiale. Una mutazione che li ha trasformati in orrendi predatori assetati di sangue che si aggirano in cerca di prede umane nell’immensa e labirintica struttura dell’ Elysium.


'Sfera' (1998) di Barry Levinson

Sul fondo degli abissi giace una misteriosa astronave dalla sconosciuta provenienza. 
Al suo interno c’è una sfera capace di condizionare la mente di chi vi entra in contatto. Materializza le paure dell’inconscio rendendole reali.
L’esplorazione dello spazio diventa sempre l’incontro con il proprio inconscio.
Pensiamo che nell’Universo sia nascosto qualcosa di nuovo e misterioso, forme di vita aliene, che tutto sia completamente diverso dalla nostra vita sulla Terra.


'Doppia immagine nello spazio' (1969) di Robert Parrish

In Doppia immagine nello spazio il viaggio verso un nuovo pianeta approda in un luogo speculare al nostro mondo. Un 'oltre' lo specchio dove tutto è identico ma inverso. Follia o realtà? Un classico della fantascienza di fine anni sessanta ma anche una tematica incredibilmente attuale se pensiamo a Kepler-186f , il pianeta gemello della Terra scoperto dalla Nasa.
Il doppio ormai non è più solo un’astrazione letteraria, una patologia psichiatrica. Potrebbe diventare una concretezza scientifica attraverso la clonazione.
Nessuna allucinazione, nessuna voce interiore, nessuna proiezione dell’inconscio.
Ritrovarsi davanti ad un essere identico a noi fatto di carne ed ossa.


'Moon' (2009) di Duncan Jones

E’ quello che accade a Sam Bell, un astronauta impegnato a supervisionare l’estrazione del prezioso gas helium3 sulla Luna. 
A causa di un banale imprevisto l’uomo si ritrova faccia a faccia con il suo rimpiazzo gemello. Scopre di essere lui stesso un altro clone.
Nient’altro che duplicati a scadenza triennale che la ditta Lunar Industries utilizza per supervisionare il funzionamento degli estrattori automatici.
Ogni tre anni un clone di Sam pensa di aver terminato il contratto e di tornare sulla Terra dalla sua famiglia, in realtà viene ogni volta eliminato proprio dentro quella stessa capsula/bara che avrebbe dovuto riportarlo a casa.
Quando un essere è davvero umano? Quali sono i limiti etici della manipolazione genetica?
I ricordi, le emozioni del Sam originale, anche se si tratta di innesti, affondano in radici molto profonde, così forti che i due cloni, diventati amici, decideranno di ribellarsi al loro destino.


'Le orme" (1975) di Luigi Bazzoni

Ed è ancora la luna, come emblema dello ‘squilibrio’, l’immagine ricorrente  nel thriller psicologico, di stampo polanskiano,  Le orme che non si ambienta nello spazio ma lo richiama negli incubi e nelle allucinazioni della protagonista come luogo metaforico dell’abbandono, della solitudine, del turbamento, dell’ isolamento forzato.
Un uomo lasciato sulla Luna come cavia per un esperimento scientifico, questo è l’incubo ricorrente di Alice Campos, forse reminiscenze di un vecchio film visto da bambina.
La donna ha dei vuoti di memoria che prova a riempire seguendo labili e confuse tracce che la conducono nella criptica Garma. In questa città la conoscono con il nome di Nicole.
Alice è vittima di una cospirazione o dei deliri della sua mente?
Il vero infinito si nasconde nel viaggio all’interno della psiche umana.
“La più antica e potente emozione umana è la paura, e la paura più antica e potente è la paura dell'ignoto.”
(Howard Phillips Lovecraft, L'orrore soprannaturale in letteratura, 1927)

L’ignoto siamo noi.

sabato 28 febbraio 2015

BIRDMAN, di Alejandro Gonzàlez Iñàrritu


BIRDMAN

Vacuità del successo
di Maddalena Marinelli

La scatola magica si apre mostrando i suoi ingranaggi nascosti e malconci.
Un’ansiogena macchina da presa si fa strada tra ballatoi, sipari, stretti cunicoli, vecchi camerini dismessi in cui echeggiano le discordie di un gruppo di attori aggrappati ad uno spettacolo che sta per debuttare a Broadway.
Tutti i nodi vengono al pettine e l’intricato 'retro-scena' diventa sempre più cupo e alienante, specchio di ogni tumulto interiore.  
Nell’epicentro dell’imminente disastro c’è Riggan Thompson un attore in piena crisi esistenziale. In passato era diventato famoso grazie al ruolo di un supereroe da block-buster e adesso vuole dimostrare a pubblico e critica che dietro la maschera di Birdman c’è dell’autentico talento.
Ha investito tutto in un progetto teatrale. Siamo a pochi giorni dal debutto e qualsiasi cosa va storta.  
La tensione è pronta ad esplodere. Dentro Riggan c’è un turbine in agguato.
Picchi e discese. L'ago della bilancia oscilla tra trionfo e fallimento. Intorno è tutto un susseguirsi di franate emotive: una disastrosa situazione economica, una figlia rancorosa ex tossicodipendente, un collega attore che si aggira tipo mina vagante, la più importante critica teatrale del New York Times che vuole stroncargli lo spettacolo ma soprattutto una cavernosa voce dal profondo del suo inconscio che sta per prendere il dominio.
E’ lui, è Birdman che non vuole essere eclissato; l’uomo uccello è pronto a liberarsi. L’ego della celebrità, sottoforma dell’eroe alato, irrompe con surreali scenari.
Riggan vola sopra Manhattan lanciando palle di fuoco dalle dita ma lo spettacolo non può andare in pezzi perchè è l’ultimo baluardo, la salvezza da quello stato di pochezza artistica a cui sembra essere condannato. The Show Must Go On....
Una reazione a catena. Tutto precipita e tutto risale mentre  lo spettatore è trascinato in un incessante flusso emotivo veicolato in un continuo piano-sequenza con inavvertibili stacchi.

Michael Keaton e Edward Norton in "Birdman"

Un gioco di specchi e scatole cinesi.
Birdman è il fantasma di Riggan, così come Batman lo è stato di Keaton?
Metateatro, metacinema, satira di Hollywood, condanna allo star-sistem: “Non importa se si parla bene o male, l’importante è che se ne parli”. 
Essere celebri non vuol dire essere bravi attori. La celebrità oggi arriva tramite una foto o un video di una bizzarria che si diffonde in rete. Il successo è una condizione instabile, può svanire con la stessa velocità con cui arriva.
In Birdman ritorna l’ancestrale tematica della brama di affermazione, la tragedia dell’artista, l’insopportabile minaccia del fallimento  tanto sviscerata da Cechov in Il gabbiano, nel cinema di Bergman, La sera della prima di Cassavetes o come dimenticare la commedia Nel bel mezzo di un gelido inverno di  Kenneth Branagh che riprende la stessa sovrapposizione tra finzione scenica e realtà con protagonista un attore in crisi artistica che cerca di ritrovare se stesso portando in scena l’Amleto.
L'artista narciso che annega tra verità e simulazione non riconoscendosi  nell'immagine artefatta che ha offerto al pubblico.
Birdman è un inno, un volo estremo spinto a ritrovare una verità, un senso, una passione autentica. In questo vorticoso valzer emotivo arriva anche  una bella legnata rivolta verso tutta quella critica vacua fatta di cliché e pregiudizi ma in particolar modo, sempre ritornano, le fragilità dell’attore che riportano alle recenti drammatiche scomparse di Philip Seymour Hoffman e Robin Williams.
Come in tutti i film di Inàrritu c’è un’ inevitabile concatenazione tra bene e male.

Distruzioni e rinascite. Il sorprendente flusso della vita che va ben oltre ogni nostra previsione. Una caduta può tramutarsi in un' ascesa.


sabato 17 gennaio 2015

HUNGRY HEARTS, di Saverio Costanzo


                                                MAD NEWS

L'ossessione della purezza
di Maddalena Marinelli

Pensare che doveva essere una storia d’amore.
Il primo incontro avviene nel bagno di un ristorante cinese in cui Jude e Mina rimangono intrappolati. Inizia così un rapporto che porta tempestivamente ad un matrimonio quando lei rimane incinta.
In una New York che sembra malinconica e desolante come un paese dell’Europa dell’Est si muovono le figure spaurite di questi due ragazzi che pur avendo raggiunto l’età adulta sembrano ancora due sperduti e innocenti  adolescenti in cerca di se stessi in balia di un mondo ostile.
L'amore si trasformerà presto in qualcos'altro e per loro sarà come  incamminarsi verso l'ingresso di un tunnel che li condurrà in un abisso sempre più nero.
Lei nel periodo della gravidanza inizia a cambiare, cominciano ossessioni e manie di onnipotenza da infallibile istinto materno che si considera superiore ad ogni medico nel giudicare i bisogni del suo bambino ‘speciale’.
Lui da ragazzino innamorato esegue cecamente gli inflessibili ordini della sua donna fino a capire l’effettivo rischio. 
I pericoli delle ideologie. Bisogna preservare la purezza del nascituro perché si tratta, secondo la madre, di un bambino indaco destinato a grandi cose.
Le fisime di Mina aumentano giorno dopo giorno in un crescendo di follia.
La convinzione di agire per il meglio porta la giovane donna alla distruzione di quello che ama. La visione domestica diventa sempre più claustrofobica. 
Mina trasforma il piccolo appartamento in una prigione in cui difendere il bimbo da ogni infezione esterna. Si respira un clima apocalittico, come se fuori ci fosse un terribile male distruttivo. Rimane soltanto quel triangolo di corpi attanagliato su se stesso.
Al centro l’ insostenibile immagine dell’indifesa creatura continuamente in pericolo tra una madre che lo ama ma allo stesso tempo lo sta facendo morire di fame e un padre disperato che vuole salvarlo rendendosi conto troppo tardi dei gravi problemi psichici di cui soffre la moglie.

Alba Rohrwacher in Hungry Hearts di Saverio Costanzo


Il dramma di una donna in conflitto con l’improvvisa condizione di moglie e madre. Mina, attraverso la storia del bambino indaco, crea un originale meccanismo di difesa a tutte le sue paure. Allo stesso tempo dispensa amore e rifiuto per suo figlio e la nuova famiglia che ha formato.
C’è un enorme cerchio di solitudine che circonda Jude e Mina.
Una volta che si riconosce il problema nessuno riesce ad intervenire correttamente per supportare la giovane coppia. In una città ipertecnologica con milioni di persone in circolo continuo e organizzata con servizi per ogni esigenza non c’è nessuno in grado di aiutarli.
Non servirà a molto l’intervento dei servizi sociali o della polizia. Solo un muro di disumanità burocratica. Non esistono amici, nessuna rete sociale solo una nonna che prenderà una tremenda decisione.
Dopo un inizio ostile davvero poco brillante nonchè troppo sbrigativo, che non riesce a calare lo spettatore nella vicenda o ad entrare in contatto con i personaggi, Hungry Hearts ad un certo punto vive, stupisce acquistando consistenza tecnica ed emotiva pur giocando con pochi e ripetitivi elementi.
Il film riesce a mantenere alto, quasi costantemente, un senso di profonda inquietudine.
L’inquadratura è morbosamente chiusa sui personaggi non lasciando altro respiro.
Lo spazio si serra e si distorce sempre di più sulla sorte del bambino e sull’imprevedibile alienazione di Mina.
Scarnissimi i dialoghi. Credibili ma non eccezionali le interpretazioni di Alba Rohrwacher  e Adam Driver anche perché la regia dittatrice  di Saverio Costanzo non è in dialogo con l’attore, non vuole affatto dare spazio o spessore alla personalità attoriale . Inoltre anche l’impianto visivo, così primario e dettagliato, a tratti svanisce.
Addirittura, in ulteriore sottrazione, nelle numerose interruzioni delle immagini in cui le azioni dissolvono a schermo nero le scene proseguono, si compiono altrove.
Un film di 'devastazione' in tutti i sensi anche se nell'ultimo frame si respira libertà e speranza per l'avvenire.