venerdì 22 maggio 2020

'THE LIGHTHOUSE', di Robert Eggers


'THE LIGHTHOUSE' ( 2019) di Robert Eggers - Visibile su Chili, Amazon e AppleTv


Le tenebre dietro il bagliore
di Maddalena Marinelli

Due miserabili esistenze.
Il vecchio Thomas Wake e il giovane Ephraim Winslow.
Ai nostri occhi appaiono, fin da subito, disfatti sia nel corpo che nell’anima.
Due canaglie che sembrano uscire fuori dal più lurido anfratto dickensiano.
Lestofanti, iracondi e bugiardi. Alcolizzati fino al midollo.
Sporchi, rozzi e cattivi.
Si ritrovano soli in un’ isola al largo delle coste del New England, assegnati alla manutenzione di un faro.
All’inizio i ruoli sono ben definiti.
Thomas è il guardiano del faro e Ephraim il suo sottoposto.
Il vecchio scorbutico marinaio assume, fin da subito, il ruolo di tiranno, destinando al mansueto giovane tutte le mansioni più pesanti e sgradevoli.
Inoltre Thomas vuole essere l’unico a poter accedere alla lanterna, dove si trova la lente di  Fresnel.
Non è chiaro il motivo ma nega a Ephraim di potersi avvicinare alla luce del faro, scatenando in lui una morbosa curiosità che presto si trasformerà in vera ossessione.
A causa di una violenta tempesta, le quattro settimane della loro permanenza sull’isola si prolungheranno.

Robert Pattinson in 'Lighthouse' di R. Eggers

Ben presto la condizione di isolamento e qualcosa di represso, da troppo tempo, fanno scivolare i due uomini in uno stato di alienazione.
Tra allucinazioni, assunzione smoderata di alcol, rivendicazioni, lunghissimi scontri verbali tra grettezze linguistiche e ascensioni poetiche, Ephraim sarà disposto a fare qualsiasi cosa pur di raggiungere ‘la fonte del potere’, quella luce che si rivelerà benefica o malefica?
Dopo il macabro incanto di The Witch il regista Robert Eggers ci propone, in questo suo secondo lungometraggio, una storia molto più ardita, concettuale ed astrusa.
Questa volta si concede una totale libertà di espressione e sperimentazione, dimostrando integralmente il suo potenziale creativo.
The Lighthouse è stato presentato in anteprima mondiale al Festival del Cinema di Cannes 2019 nella sezione ‘Quinzaine des Réalisateurs’ aggiudicandosi  il FIPRESCI Prize.

Robert Pattinson in 'Lighthouse' di R. Eggers

Eggers, in questo film, dona tutto il suo estro più sfrenato sciolto da qualsiasi vincolo, consapevole di aver creato un’opera cinematografica splendidamente ‘anomala’ che non vuole compiacere il pubblico, che sarà meno amata e meno comprensibile rispetto a The Vitch e per cui patirà, non poco, da un punto di vista distributivo.
Una prova di coraggio, il voler spingersi oltre, creando qualcosa di unico.
Rimane nell’ambito del trhiller psicologico a tinte horror, caratterizzato da un' asciutezza registica composta principalmente da inquadrature fisse e spostamenti di macchina lenti. 
Non manca un altro suo tratto ormai distintivo: la peculiare ricerca estetica.
I riferimenti arrivano sempre da leggende e antiche superstizioni popolari ma centrale è l’evocazione di figure mitologiche che racchiudono un potente  significato simbolico dei personaggi.

Willem Dafoe nelle sembianze di Proteo in 'The Lighthouse'

Il vecchio Thomas è visto come Proteo una divinità del mare, dei fiumi e delle distese d'acqua, nonché oracolo e mutaforma, mentre il giovane Ephraim viene paragonato a Prometeo, colui che ruba il fuoco alla divinità, ovvero, la luce della conoscenza e che per questo verrà punito severamente.
Eggers ha lavorato ad un ampia ricerca iconografica per poter arricchire la sua opera filmica di citazioni legate al mondo dell’arte.

  A destra: 'Hypnosis' (1904), opera grafica di Sascha Schneider - A sinistra: una scena del film 'The lighthouse'

In una scena di The Lighthouse c’è un chiaro richiamo all’opera grafica  "Hypnosis" (1904), del pittore simbolista Sascha Schneider anch’esso influenzato dalla mitologia greca.
Da qui, si potrebbe ipotizzare, un rimando al mito di Ipnos che diede ad Endimione la facoltà di dormire ad occhi aperti.
Thomas/Ipnos essendo un tramite del potere racchiuso nella luce del faro ha la capacità di poter ipnotizzare Ephraim/Endimione per condurlo, attraverso un viaggio allucinatorio, verso l’assunzione, la consapevolezza dei suoi traumi e delle sue colpe.
Nei suoi molteplici deliri ad occhi aperti, Ephraim è attratto da una suadente sirena che rappresenta la sua pulsione sessuale repressa e l’accesso ad una zona d’ombra dimenticata, in cui affiora un grave senso di colpa che pretende una punizione o un’ assoluzione.
Nel passato, il ragazzo, si è macchiato di omicidio e di furto d’ identità senza essere stato mai smascherato o ricevere una condanna per i suoi misfatti.
Il  faro rappresenta la resa dei conti, la luce che fa venire a galla le verità nascoste a cui non si può sfuggire.
Altra ipotesi: l’isola potrebbe essere un luogo irreale, una specie di ‘purgatorio’ in cui espiare, purificarsi da tutte le nefandezze compiute in vita, per ricevere punizioni o indulgenze.

Willem Dafoe in 'The Lighthouse' di R. Eggers

In questo caso Thomas sarebbe un’ entità preposta ad aiutare e guidare Ephraim in questa sorta di percorso spirituale interiore/rivelatorio.
Oppure un’altra chiave di lettura ci viene suggerita dalla scoperta che il vero nome di Ephraim è Thomas; quindi ci potrebbe essere un solo personaggio reale mentre l’altro è una sorta di proiezione/sdoppiamento dello stesso che serve a far luce sul represso.
Come si può desumere The Lighthouse si presta a diverse possibili interpretazioni e differentemente da The Witch, in cui si arriva ad una chiara risoluzione, il finale rimane imponderabile come un sogno sospeso.
Ti perdi, ne assorbi l'angoscia. Svanisce ogni riferimento temporale.
Non sapremo mai se si tratta di pura follia, oppure l’isola nasconde qualcosa di sovrannaturale.
Eggers questa volta ha preferito lasciarci nel dubbio, per la gioia o il disappunto dello spettatore.
I rimandi cinematografici sono chiari.

Willem Dafoe in 'The Lighthouse' di R. Eggers

The Lighthouse è un atto d'amore nei confronti dell'espressionismo tedesco, nello specifico al cinema di Lang e Murnau.
Il film è stato girato su pellicola 35mm in bianco e nero con un aspect ratio 1.19:1 e lenti Baltar degli anni Trenta, per renderlo visivamente simile alle pellicole ortocromatiche di inizio secolo.
Oltre alle suggestioni gotiche tratte da La ballata del vecchio marinaio di S.T. Coleridge, un altro importante riferimento letterario arriva dall’universo lovecraftiano, esattamente dagli ‘abitatori del profondo’ che compaiono la prima volta nel racconto  La maschera di Innsmouth (1931).
Si tratta di esseri ibridi che dimorano negli abissi del mare.
Un incrocio ottenuto dall’accoppiamento tra un essere umano e una creatura anfibia.
Nel racconto di Lovecraft la cittadina costiera di  Innsmouth, oltre all’unione carnale, in cambio d’oro e pesca abbondante offre sacrifici umani agli abitatori del profondo.
In The Lighthouse ad Ephraim apparirà diverse volte un’indefinile creatura dai lunghi tentacoli collegata al personaggio di Thomas colto ad avere una specie di rapporto sessuale con quest’ultima, davanti all’occhio fulgente del faro.

Robert Pattinson in 'The Lighthouse' di R. Eggers

Una surreale discesa nel baratro. 
Un viaggio introspettivo nella dannazione dell’animo umano che sembra irrimediabilmente corrotto da un male attanagliante.
Nel cinema di Eggers l’uomo compare sempre come un essere avido e malvagio, mai meritevole di alcuna redenzione, perso nel proprio inferno reale o ultraterreno; in ascesa verso il male.



giovedì 14 maggio 2020

L'UNIVERSO #2: 'GRAVITY', di Alfonso Cuaron


GRAVITY (2013) di Alfonso Cuaron


Alla deriva nello spazio della mente
di Maddalena Marinelli

L’universo può essere meraviglioso e terrificante.
Una potenza mistica accogliente  in cui cullarsi e un’entità  annientatrice di fronte a cui l’uomo prende coscienza del suo limite.
“Vorrei essere libero, libero come un uomo. / Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza / e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza, / con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo / e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.”
(Giorgio Gaber, La libertà, 1972)
La dottoressa Ryan Stone è un brillante ingegnere biomedico, per la prima volta in missione nello spazio. 
Per l’astronauta veterano Matt Kowalsky, si tratta dell’ultimo viaggio prima di andare in pensione. 
Mentre si trovano all’esterno dello Shuttle per effettuare delle operazioni di manutenzione al telescopio Hubble, arriva improvviso il caos. 
Una tempesta di detriti distrugge la navetta. 
L'equipaggio all’interno viene sterminato. 
Adesso Ryan e Matt sono gli unici sopravvissuti  alla deriva nel cosmo.
Il nemico è in se stessi, nella capacità di controllare la propria paura e in particolar modo per Ryan nel trovare una motivazione, una nuova forza per riuscire a sopravvivere e tornare sulla Terra. 
Questa forza uscirà fuori dopo aver superato il suo buio interiore causato, tempo prima, dalla perdita della figlia.
Sospesi in un limbo nero straniante in lotta contro l’assenza di gravità, un’immensa forza invisibile. 

'Gravity' di Alfonso Cuaron

Il corpo si contrae lottando inutilmente contro l'assenza di peso, di controllo, di direzione. 
La continua minaccia di essere risucchiati dall’enormità dello spazio.
Dopo un lungo e pacifico piano sequenza le roller coaster iniziano all’improvviso dal decimo minuto e proseguono fino alla fine. 
A stemperare lo stato d’ansia c’è George Clooney gigione che racconta storielle e fa giretti nello spazio come se fosse la cosa più naturale del mondo. 
Sandra Bullock, viceversa, è terrorizzata per la maggior parte del tempo per svoltare, verso la fine, in eroica combattente.
La macchina da presa è il silente terzo uomo con l’unico compito di raccontare tutto ciò che sta accadendo.  
Indomita orbita in ogni direzione, fa quello che vuole, si capovolge, si allontana, va all’interno delle tute. E’l’unica a godere pienamente di questa assenza di gravità. 
Senza vincoli spaziali riesce ad essere ovunque stando addosso ai due astronauti per respirarne tutte le emozioni, come accadeva nel precedente film di Cuarón I figli degli uomini, in cui  la macchina da presa rimaneva incollata ai protagonisti e alle loro peripezie standogli stoicamente col fiato sul collo come un reporter di guerra.
L’unico legame con la Terra è il contatto vocale, un piccolo vincolo rassicurante che riporta ad una realtà conosciuta contro un abisso oscuro, assolutamente privo di suoni.  
Dopo la pioggia dei detriti la voce sarà interrotta lasciando completamente soli Ryan e Matt. Houston non risponde. L’altro rapporto che verrà spezzato, più di una volta provocando il panico, sarà quello dei tanti ‘cordoni ombelicali’ che mantengono il legame tra gli astronauti o con la navicella: “ E’ da farsela addosso qui quando le cose non sono legate” urla il logorroico Matt all’ ansimante Ryan dopo averla salvata da una discesa eterna nel buio siderale.

George Clooney in 'Gravity'

L’angoscia che diventa alienazione è l’emozione incessante di Gravity. 
Si sente una morsa allo stomaco quando la protagonista sprofonda dentro lo spazio infinito.
Continuare ad allontanarsi in eterno. Una caduta senza fine.
Viene evocata una paura ancestrale, quella di perdersi nel vuoto senza più ritorno prima da vivo e poi seguitando anche da morto. 
Concettualmente molto vicino all’essere sepolti vivi o rimanere da soli in mezzo all’oceano ma in una situazione di solitudine ed impotenza, se è possibile, ancora più assoluta.
Cuarón  dopo aver affrontato un futuro distopico in I figli degli uomini concepisce questo  melodramma/thriller spaziale seguendo l’esempio di Solaris o di 2001: Odissea nello spazio realizzando un film minimale che propone il ritorno ad una fantascienza anni settanta più intimista  e meno incentrata su effetti spettacolari, mostri alieni o ritmi vorticosi.
In effetti nessuna particolare novità perché a questo ci aveva già abituato la sofisticata science fiction di Andrew Niccol che unisce ricercatezza estetica, tormenti esistenziali e quesiti etici. 
Alla base di Gravity c’è una trama abbastanza semplice e retorica.
La straordinarietà è tutta  nell’esperienza visiva e sonora. 
Un’immersione pura in quella contemplazione poetica del nostro Pianeta da un punto di vista impossibile da raggiungere per la maggior parte di noi. 
I profondi silenzi interrotti dai respiri affannosi o dalla bellissima colonna sonora ansiogena di Steven Price.
Il contrasto tra le luci del pianeta Terra e il nero dello spazio senza forma. 
L'aurora che sorge dal buio dell'immensità cosmica.
Gli effetti speciali sono sempre presenti ma è come se transitassero invisibilmente rispetto alla componente esistenziale.

Sandra Bullock e George Clooney in 'Gravity'

I movimenti di macchina sono precisi, motivati e mutano continuamente dimostrando una grande maestria tecnica vissuta appieno. 
Ogni immagine è intrisa di un significato metaforico che indica il percorso di rinascita interiore della protagonista. 
Lontani dalla Terra, sospesi nell’annullamento cosmico che può cancellare tutto. Nessuno ti può fare del male.
La gravità che manca per tutto il film, per tornare alla fine, non è solo un concetto fisico ma anche psichico. 
Il dolore, il peso dei ricordi che grava non può alleviarsi nell’oblio ma va riaccolto, affrontato per tornare presenti alla vita.
“Non è nello spazio che devo cercare la mia dignità, ma nell'ordine dei miei pensieri. Non avrei alcuna superiorità possedendo terre. Nello spazio, l'universo mi comprende e m'inghiotte come un punto; nel pensiero, io lo comprendo”.
(Blaise Pascal, Pensieri, 1670)