domenica 25 novembre 2018

IL CORPO: Le ossessioni viscerali di Cronenberg, Polanski e Friedkin



Carneficine
di Maddalena Marinelli

Il corpo (post)umano come punto di vista, punto di partenza, punto di rottura. 
Luogo di contatto e di separazione tra il sé e il mondo.
David Cronenberg, Roman Polanski e William Friedkin sono i tre maestri del perturbante che attraverso il loro cinema hanno esplorato e sezionato la nostra realtà, ricomponendola in una visione metafisica.
Loro sanno cosa ci spaventa dando un volto a quel buio nascosto dietro l’angolo delle nostre strade, delle nostre case, della nostra mente.
Una discesa nell’abisso della psiche da cui riemergono ricordi, dolori, traumi mai affrontati incarnati da una serie di emblematici personaggi.
Reinventori di tragedie in chiave moderna, si sono confrontati con tutti i generi cinematografici.
Rigorosi e visionari nella loro ormai lunga carriera che percorre tutto il Novecento, il secolo della carneficina, hanno affrontato tutti i peggiori incubi che arrivano dall’uomo e quei pochi che provengono dal sovrannaturale.
Polanski rimane il più celebrale, poco incline a membra sanguinolente e a crude manifestazioni fisiche dell’orrore mentre gli altri due, spesso e volentieri, insistono sulla mattanza. 
La carne ferita da dove Cronenberg fa sgorgare tutto il suo mondo putrescente e mutageno.
Apre nuovi orifizi dove prima non c’erano..”, come direbbe il Marchese De Sade.

"The Exorcist" di William Friedkin (1973)

Tramite il supplizio del corpo si consuma “l’orrore visibile” come in quello di Regan deformato e martirizzato dalla possessione ne L’esorcista o fatto a pezzi dal serial killer di Crusing e ancora ferito, scarnificato e infine condannato a bruciare dalla follia di Peter Evans in Bug – La paranoia è contagiosa.
Ed è sempre il corpo il punto d’incontro tra orrore psicologico e orrore fisico. Conduttore di infezioni, mutazioni in Il demone sotto la pelle, di sevizie autoprodotte in Crash, di ossessioni e depravazioni mediche in Inseparabili.
Il corpo come ultima, tangibile visione in cui si possono materializzare gli incubi del nostro inconscio. 
Trasformare l’esile e sottomessa Carole Ledoux in feroce killer nel film Repulsion, nascondere nei volti di premurosi vicini degli adepti di Satana in cerca di un utero per far nascere l’anticristo in Rosemary's Baby, invertire la vittima in carnefice come in La morte e la fanciulla.

"Death and the Maiden" di Roman Polanski (1994)

Negato alla macchina da presa e lasciato alla nostra immaginazione è “l’orrore invisibile” quello che non può essere svelato, quello a cui viene respinta ogni immagine rimanendo informe per sempre. Fa molta più paura il male che non si vede?
In Polanski manca il primo piano del piccolo anticristo nella culla e le terribili sevizie e gli abusi subiti da Paulina Lorca Escobar ci vengono solo raccontate attraverso l’ intenso monologo della protagonista.
Quindi resta molto spesso il dubbio che il vero malessere, la vera persecuzione sia tutta nella nostra mente e, come nell’ Inquilino del terzo piano, fuori non esista nessun complotto.
Friedkin ci mostra la bruttura fisica e psichica del male tramite un corpo posseduto, ma non ci farà mai vedere il vero volto del demonio. 
Come in Bug non vedremo mai nessun primo piano di insetti nè fuori nè sotto la pelle, ma la suggestione è talmente incalzante, congegnata bene dalla regia e dai due attori (Ashley Judd e Michael Shannon) che la paranoia potrebbe contagiare anche gli spettatori e indurre a qualche grattatina o a scorgere minuscole, quasi impercettibili, svolazzanti apparizioni fuori dallo schermo.
Il seme della follia è letale, contagioso e senza limiti creativi, la materia filmica si è molto nutrita di psicosi diventando spazio privilegiato di paure, fantasmi collettivi, traumi irrisolti.
Per quanto riguarda Cronenberg, in effetti, è davvero difficile che lasci qualche crudeltà, raccapriccio e mostruosità all’invisibile. 
Il suo cinema è debordante di idee visive destabilizzanti, oggetti e innesti che sfociano, al di fuori del film, nella pura creazione artistica.

"Eastern Promises" di David Cronenberg (2007)

Tuttavia negli ultimi anni sembra aver accantonato il “body horror” e il suo sadomasochistico visionarismo per scenari più classici e narrativamente più verosimili di smaliante realismo ma forse ancora, celatamente, più inquietanti perché in A History of violence e Eastern Promises l’orrore e la violenza trasudano dietro padri di famiglia, normalità quotidiana e piccole faide di mafia urbana, dove c’è sempre qualcuno che fugge da se stesso per diventare un altro.
Un orrore casalingo travestito e insospettabile molto più vicino a noi rispetto a stravaganti epidemie, esperimenti di teletrasporto o innesti tra uomo e macchina.
La ricerca del male porta inevitabilmente ad un’analisi dell’interiorità umana che la maggior parte delle volte, nei film dei tre registi, compare ferita, devastata, moralmente ambigua, irrimediabilmente compromessa, destinata ad amori impossibili e malati come in Inseparabili, Luna di Fiele o Bug.
Anche l’atto sessuale è spesso qualcosa di brutale, oscuro, come fosse generatore di morte e non di vita, rito iniziatico verso la caduta.
L’oscurità dal corpo dei personaggi si riflette nei luoghi che diventano trappole misteriose e spettrali.
Interni claustofobici  in Polanski, gelidi ambienti urbani in Friedkin e asettici spazi ospedalieri in Cronenberg.
Assolutamenti devoti a Kafka e alle sue parole: 
“ Una vera opera d’arte non è tale quando ci insegna, quando ci fa divertire o rilassare ma quando ci scuote, ci fa precipitare nel buio, ci fa riflettere, ci fa male”.
L’altra fonte d’ispirazione artistica e tecnica, punto di riferimento comune da cui trarre lezioni di cinema e varie lucubrazioni da riesaminare è Alfred Hitchcock, nominato spesso in particolar modo da Friedkin.

"Dead Ringers" di David Cronenberg (1988)

Le sue classiche tematiche vengono riconsiderate: il doppio tanto ricorrente soprattutto in Cronenberg che arriva alla sua massima espressione nei gemelli Elliot e Beverly Mantle di Inseparabili; la figura femminile oscillante tra indole ingenua e indole seduttrice protagonista favorita da Polanski; la suspence trasmessa attraverso il lavoro sull’immagine, gli accorgimenti tecnici, i ritmi del montaggio e la cura del sonoro in Friedkin.
          Una sfilza di ambigui personaggi che in società indossano una maschera,  facendo finta di essere molto integri celando la loro identità depravata.


"Barbablù consegna la chiave a sua moglie" illustrazione di Gustave Dorè (1862)

       Inutile, il male suscita quell’attrattiva che il bene proprio non possiede e per l’uomo sembra congenito scovarlo. Quando Barbablù porta a casa l’ultima moglie dicendogli che nel castello può andare dove vuole tranne in quell’unica cameretta chiusa a chiave, naturalmente quello sarà l’unico posto dove lei farà di tutto per entrare, scoprendo la macabra stanza/mattatoio in cui sono custoditi, affissi lungo le pareti, tutti i corpi scannati delle precedenti sei mogli. Il corpo come fulcro di punizione per l'affermazione di potere e controllo.

lunedì 20 agosto 2018

LA FINE DEL MONDO #5 - “Il sacrificio del cervo sacro”, di Yorgos Lanthimos


IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO



Gruppo di famiglia all’inferno
di Maddalena Marinelli

Una lenta decomposizione dell’animo umano nella sofferenza e nell’apatia.
Un’umanità tecnologicamente avanzata condannata all’imbarbarimento, alla negazione o perversione dei sentimenti.
L’uomo non sa più amare. Il cuore è inaridito, ridotto alla meccanica di un muscolo.
Lanthimos ci parla di un annientamento interiore che deflagra sommessamente e a piccoli morsi divora il genere umano.
Come in Kynodontas ritorna la corruzione del nucleo famiglia, ma questa volta l’orrore, la devastazione arriva da un’entità superiore, non da malformazioni generatesi al suo interno.
Comunque sia, il male dilaga dentro e fuori, non c’è scampo per l’essere umano che non può scappare di fronte alle conseguenze delle sue azioni e implacabili sono i danni provocati dalle complicanze psicologiche delle relazioni familiari.
Il Dottor Steven Murphy ha causato la morte di un suo paziente e secondo Martin, il figlio della vittima, l’uomo dovrà pagare sacrificando un suo congiunto.
Il perfetto nucleo familiare borghese, anaffettivo e raggelante nella sua ritualità quotidiana, viene sconvolto da un ragazzino che gioca a fare Dio.
All’interno di un moto circolare, richiamato continuamente, tutto dovrà tornare ad un ordine.
Come nel mito greco la divinità offesa pretende giustizia (vendetta?) per il torto compiuto dall’uomo.
La famiglia Murphy si ammala, si sgretola, i suoi componenti si mettono uno contro l’altro. La crudeltà innescata da Martin scopre altre e peggiori crudeltà.
In questo folle scenario la madre stabilisce che uno dei due figli è sacrificabile poiché se ne può sempre generare un altro.
La figlia maggiore già medita d’impossessarsi di alcuni oggetti del fratellino che reputa spacciato. 
Il padre cerca di capire quale dei due figli sia più opportuno sacrificare in base al rendimento scolastico.

"Il sacrificio del cervo sacro" (2018) di Yorgos Lanthimos

Un cinema senza speranza e senza risposte.
Disturbante, surreale, grottesco ma allo stesso tempo una chiarissima esposizione dello stato di allarme emotivo che avvolge la società contemporanea.
Lanthimos produce pene ma è come l’ambasciatore che non ne è il diretto responsabile.
La sua regia colpisce come il boia, rimanendo sempre ‘al di sopra’ di ogni avvenimento; per questo si congiunge al cinema di Lars Von Trier che va a scavare nel male più profondo dell’umanità tra odio, sacrificio, tortura e vendetta, scardinando e ribaltando il punto di vista su ogni certezza etica, gettando lo spettatore in un baratro senza risalita.
Evidente, ancor di più, il legame con Haneke e il suo cinema della crudeltà; rigoroso nell’analisi di quell’oscuro mondo sommerso che si tende a nascondere, negando le conseguenze di un passato storico terrificante che appartiene a tutti.
L’Europa non troppo tempo fa è stata lo scenario di dittature, stermini di massa programmati, stupri etnici, esecuzioni arbitrarie, reclusioni e lingiaggi di persone omosessuali. Orrori che non sono così lontani come pensiamo ma dietro l’angolo pronti a ripresentarsi se sottovalutiamo certi segnali, lasciamo salire al potere determinate persone, viviamo in una comoda e voluta inconsapevolezza.
Il male dilaga per colpa di un Dio che manovra (con un misterioso fine?) i nostri destini, oppure è tutta opera dell’uomo e del suo spiccato talento a fare un uso abominevole del libero arbitrio? O come asseriva Nietzsche Dio è morto e il mondo è solo un caos irrazionale?
Quali sono le origini del male? Dove germinano i nostri istinti maligni?
“Abbiamo ricevuto dalla nostra famiglia le idee di cui viviamo così come la malattia di cui moriremo.” (Marcel Proust)
Il microcosmo famiglia è inferno quanto paradiso.
E’ la fucina dove forgiamo i parametri esistenziali. Il primo nucleo in cui sviluppiamo i rapporti umani, definiamo la nostra identità, in cui sperimentiamo tutta la gamma dei sentimenti e dove avvengono i traumi che possono condizionarci per tutta la vita.
Un sistema che protegge e rafforza oppure abbandona, abusa e distrugge.
Molti cineasti hanno preso in esame l’annientamento della famiglia.
Oltre ad evidenziare e sviluppare quei moti di violenza ed odio che si possono attivare al suo interno è un disfacimento che va inteso come simbolo di una necessaria emancipazione, di un rinnovamento sociale. Rottura col vecchio per affermare il nuovo.
Il bersaglio preferito da Buñuel, Chabrol, Monicelli, Scola o il già citato Haneke è esattamente la famiglia borghese che dal Sessantotto ad oggi diventa organismo da sconsacrare in tutti i suoi tipici cliché di vanità, materialismo, bigottismo.
Rovinare la recita dell’idillio borghese.

"Funny Games" (1997) di Michael Haneke 

In Funny Games un malefico duo di sterminatori di bell’aspetto entra all’interno dell’ovattato guscio di una casa borghese per condurre una lenta, perversa, implacabile mattanza a scapito di un’intera famiglia upper class tenuta in ostaggio. 
Una violenza estrema e apparentemente insoluta che quando finisce ricomincia nella villetta accanto. 
Uno sterminio programmato di benestanti in vacanza.

"Teorema" (1968) di Pier Paolo Pasolini

L’elemento esterno che infiltrandosi  scardina ogni certezza. 
In Teorema, di Pier Paolo Pasolini, il sistema famiglia viene sconvolto da un affascinante e misterioso ospite che distrugge la vacua tranquillità di ogni suo componente per una rinascita spirituale.
Una villa isolata in cui macera un’annoiata esistenza.
Un’aria di morte che diventa insopportabile; una pericolosa estraneità alla normalità della vita.

"I pugni in tasca" (1965) di Marco Bellocchio

Nel film I pugni in tasca il giovane Sandro libera la sua rabbia e decide di eliminare sistematicamente i suoi congiunti. 
Rimuovendo ogni vincolo è sicuro di conquistare una libertà, un cambiamento ma la sua infantile scelleratezza e il peso di quei sacrifici di sangue lo bloccheranno definitivamente nella sua casa/tomba.

"La Cérémonie" (1995) di Claude Chabrol

Il salotto borghese, luogo simbolo della vita sociale e della convivialità, diventa un ammazzatoio. L’altare sacrificale dove si consuma l’ultimo atto, l’atto dell’esecuzione.
Vite ai margini, un passato di privazioni e abusi, orrori taciuti, tare mentali mai sanate.
Un’altra coppia malefica. La domestica Sophie insieme alla postina Jeanne in La Cérémonie di Claude Chabrol stermineranno un’intera famiglia a fucilate. 
Un folle ed estremo gesto. 
Nella loro mente malata, queste due donne, si vedono come delle vendicatrici  di ogni umiliazione, sopruso, atto di superbia compiuto dalla classe agiata nei confronti di chi considera inferiore a loro.

"Le colline hanno gli occhi" (2006) di Alexandre Aja

Esseri umani resi deformi da test nucleari condotti dall'aeronautica degli USA, condannati a vivere nel deserto, in una miniera abbandonata, diventeranno feroci predatori.
Mostri generati dal progresso e dal disprezzo.
In Le colline hanno gli occhi il nato diverso, il mostruoso deriso e condannato all’emarginazione va ad attaccare, torturare e divorare la tipica famiglia americana.
In una polverosa soffitta una scatola di home movies attende nuove vittime.
Terrificanti filmini in Super8 di vacanze, natali, compleanni finiti con impiccaggioni, annegamenti, roghi, decapitazioni.

"Sinister" (2012) di Scott Derrickson

In Sinister il demone videomaker Bughuul manipola dei bambini per attuare terrificanti massacri a scapito dei loro genitori e fratelli, immortalando il tutto su pellicole che serviranno di volta in volta come esca, perché è tramite l’immagine che l’entità malvagia effonde il suo potere.
Dopo tali sacrifici di sangue, la perfida divinità pagana, porta i prescelti nel suo regno per cibarsi delle loro anime.
I bambini uccidono le loro famiglie per entrare in una dimensione immaginaria di lenta deprivazione.
Una folgorante metafora horror sul pericolo del potere di suggestione e sull’abuso  di immagini (internet, videogame, tv, ecc…). 
Ogni giorno bambini e adolescenti subiscono un incontrollato bombardamento visivo isolati nel loro spazio virtuale, allontanandosi sempre di più dalla realtà, in preda alla dipendenza digitale.
Siamo prigionieri di interni svuotati, di emotività perdute, di identità simulate verso il declino in una violenza intesa come unica possibilità di affermazione rimasta.

martedì 10 luglio 2018

RE PER UNA NOTTE, di Martin Scorsese

MAD CULT

The King of Comedy


L’ossessione per la celebrità
di Maddalena Marinelli

“Ognuno di noi può ottenere quello che vuole purchè sia disposto a pagarne il prezzo” questo è il motto di Rupert Pupkin logorroico mitomane, esagitato ammiratore del celebre comico televisivo Jerry Langford.
Rupert chiuso nel suo scantinato sprofonda in un mondo tutto suo in cui confonde fantasia e realtà.
Si allena ad essere una celebrità; fa le prove del suo show tra applausi registrati e sagome cartonate di personaggi famosi.
Immagina di diventare amico e mentore di Langford oppure di sposare la cameriera Rita che ama fin dai tempi del liceo.
Sogni perentoriamente interrotti dalla voce sprezzante (fuoriscena) della madre che lo riporta ad una realtà in cui è solo un uomo deriso e compatito.
Rupert non vuole arrendersi e cerca una rivalsa da un passato di vessazioni subite in famiglia e nell’ambito sociale.
Il mondo lo ignora e gli sbatte le porte in faccia ma Rupert ha un piano.
Convinto che la sua chiave di volta sia Langford, lo stalkerizza fino a compiere quella folle azione che sarà il prezzo da pagare per avverare il suo sogno.

Robert De Niro nel film "Re per una notte"

Amara, comica e acutissima parabola in cui Scorsese ci risparmia violenza e mattanza nonostante la tangibile perturbante tragicità dei personaggi portata verso i limiti.
Langford, uomo ricco e famoso ma infelice, interpretato da un memorabile Jerry Lewis monolitico e funereo.
Masha, l’improbabile ma azzeccata complice di Rupert è l’altra faccia di un benessere economico borghese annoiato, vuoto, che disperatamente trova un senso alla propria esistenza unicamente nell’ossessivo amore maniacale per Langford.
Rupert è apparentemente l’insignificante buffone che insegue il suo sogno impossibile ma che andando oltre i limiti del legale riesce a mettere fuori scena Langford prendendone il posto.
Il film si apre con l’emblematica immagine del divo assalito, quasi fatto a brandelli dai suoi fans. 
Una scena d’isteria collettiva in cui la massa vuole ‘divorare’ il suo idolo. Un rito sacrificale incompiuto destinato a ripetersi ogni giorno sulla carne di Langford.
Riflessione sui risvolti più inquietanti della celebrità in cui, allo stesso tempo, si vuole essere al centro dell’attenzione e scappare da quell’occhio insaziabile dei media e dei fans.
Si viene amati per quello che si è o per quello che si rappresenta?
Il dualismo del divo: la facciata vincente che tutti invidiano e il retro desolante e torbido che Scorsese ritrae  in quella solitudine sconfinata che circorda e imprigiona Langford nella sua torre d’avorio.
Emblematico ed attuale se pensiamo alle tragiche sorti di acclamate celebrità come Robin Williams, Philip Seymour Hoffman, Heath Ledger.

Robert De Niro nel film "Re per una notte"

Re per una notte resta tra i film di Scorsese che ebbe meno successo, addirittura all’epoca ritirato, prima del dovuto, dalle sale cinematografiche per via degli scarsi incassi ma assolutamente da rivalutare per la magistrale regia di Scorsese e le interpretazioni di Robert De Niro, Sandra Bernhard e soprattutto un grande Jerry Lewis che mostra un' inquietante maschera antitesi del Picchiatello. Nel suo Jerry Langford affiora qualcosa di autenticamente intimo e autobiografico attuando un gioco di specchi, una sovrapposizione tra l’uomo e l’attore.
Il retroscena del comico, spesso carico di malinconia e inquietudine.
La ceca crudeltà della fama che arriva per chiunque, non conosce moralità e svanisce quando vuole.

“La vostra fama è come il fiore, che nasce e muore, e si secca allo stesso sole che gli ha dato vita dall'acerba terra.” (Dante Alighieri)

domenica 4 marzo 2018

IL FILO NASCOSTO, di Paul Thomas Anderson

MAD NEWS

PHANTOM  THREAD


Amore straziami!
di Maddalena Marinelli

“Lo spreco della vita si trova nell’amore che non si è saputo dare... nel potere che non si è saputo utilizzare, nell'egoistica prudenza che ci ha impedito di rischiare e che, evitandoci un dispiacere, ci ha fatto mancare la felicità.” (Oscar Wilde)

Cosa siamo disposti a fare per amore?
Subire umiliazioni? Rinunciare a noi stessi? Sottomettersi a tutto pur di non essere lasciati? Oppure diventare dei seviziatori? E questo è davvero amore?
Scene da un matrimonio. Gioco di ruoli e di dominazioni che possono reggere per un’intera vita o condurre all’autodistruzione.
 La coppia diventa terreno di infinite lotte di potere in cui si consumano le perversioni più nascoste. Amore e odio che si alimentano a vicenda.
Reynolds Woodcock è anaffettivo, egocentrico, misantropo, viziato.
Un misogino circondato e dipendente da donne.

Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson

Donne che lui vede come oggetti preziosi, poco più che manichini pregiati su cui contemplare le sue perfette creazioni di moda.
Muse di passaggio che dopo aver compiuto il loro dovere vengono congedate.
Donne che vengono tutte eclissate da quell’unica irraggiungibile figura femminile che Reynolds ama, adora feticisticamente, ovvero la defunta madre di cui conserva gelosamente, come reliquia, una ciocca di capelli cucita all’interno della sua giacca.
L’altra eccezione, colei che occupa un posto d’onore nella vita e nel lavoro di Reynolds, è la sorella Cyril che definisce: “la mia spina nel fianco”; indispensabile surrogato materno, irreprensibile governante, vera e propria vestale che asseconda e alimenta tutte le ossessioni e i rituali del fratello in nome della fiamma del genio creativo che non deve mai smettere di ardere.
Questo meccanismo perfetto, questo controllo assoluto in cui Reynolds ha vissuto per tanto tempo verrà sconvolto dalla giovane Alma; inizialmente intrusa destinata alla solita sorte di musa usa e getta ma alla fine capace di manipolare e rendersi ‘indispensabile’, amata follemente dallo stilista.
Il rapporto tra Reynolds e Alma inizia con uno scambio.
A lei è offerta una vita da sogno con tutta una serie di privilegi, in cambio lui potrà 'usarla' come più gli piace.
Lo stilista non vuole nessun confronto, nessun parere, nessun rumore da Alma che avrà unicamente la possibilità di assecondare, possibilmente in silenzio, i suoi repentini cambi d’umore.
La donna dovrà sistemarsi in casa come una specie di bambola seguendo le istruzioni e l’inalterabile routine dell’uomo. Ogni ribellione è punita con la minaccia di fine rapporto.
Ma questa volta l’inossidabile  tirannia dell’uomo viene sbriciolata e la donna diventa ‘l’ Alma Mater’ salendo al potere,  istituendo un nuovo equilibrio basato su un legame amoroso macabro e perverso.
L’apparentemente mansueta Alma da vittima diventa carnefice trovando la strada della felicità di coppia nel sadomasochismo: “Voglio averti sdraiato sulla schiena, inerme, tenero, aperto con solo io ad aiutarti. Poi ti voglio di nuovo forte..”
Ogni volta che Reynolds diventa perfido e intrattabile, convinto che può bastare a se stesso e che l'unica cosa importante è l' immolazione al suo lavoro, Alma ricorre ad una 'particolare' strategia per calmarlo, gestirlo, sottometterlo, rendendosi indispensabile nella sua vita. Nessuno potrà cacciarla da quella casa.

Daniel Day- Lewis nel film "Il filo nascosto"

Il cinema di Paul Thomas Anderson è sempre più assoluto.
Potente e allegorico come quello di Bergman o di Kubrick.
E’ materia filmica abissale; ormai la sua visione è oltre la narrazione e i personaggi.
Alita la forza di un misterioso velo nascosto; una sospensione in cui lo spettatore rimane smarrito e privo di riferimenti, in uno stato di grazia tra emozioni, quesiti, supposizioni.
Chi rappresentano davvero Reynolds e Alma? Non è solo la storia d’amore tra due menti degeneri.
Come in The Master Lancaster e Freddie erano allegorie, evocavano qualcosa al di là dei loro personaggi.
L’ ossessione di PTA è anatomizzare il presente, scovarne tutte le ombre, metterci di fronte alle nostre turbe mentali attraverso storie e archetipi. 
Smascherare tutte 'le grandi illusioni' del sogno americano che alla luce del sole si dissolve mostrando una desolante realtà a coloro che ci avevano creduto.
Perversioni e decadenze.
Cinema analitico, psicologico, antropologico, filosofico che vuole definire l’uomo e l’attuale contesto sociale cercando di capire il ‘come’, le circostanze che hanno forgiato emotivamente la società contemporanea.  
Il filo nascosto è un elegantissimo melodramma/noir che diventa thriller psicologico con chiari riferimenti a capolavori hitchcockiani come Rebecca la prima moglie, Il Sospetto, Notorius ma ovviamente Anderson ha scoperto la formula perfetta che include citazione e originalità.
Pur racchiudendo tutto in una scatola estetica perfetta; pur costruendo dei personaggi  di alta rifinitura teatrale,  il cinema di Anderson rimane fuori da ogni schema.
E’ ordine e disordine, meravigliosamente imprevedibile.
Cinema che ad ogni visione successiva continuerà a sedurre, a mutare svelando e aggiungendo misteri.

mercoledì 7 febbraio 2018

FINAL PORTRAIT, di Stanley Tucci


MAD NEWS

FINAL PORTRAIT AL CINEMA DALL'8 FEBBRAIO 


Le fisime dell’artista. Dono o maledizione?
di Maddalena Marinelli

“Il cielo è azzurro solo per convenzione, ma in realtà è rosso.” (Alberto Giacometti)

Parigi 1964. James Lord incontra Alberto Giacometti che gli propone di posare per un ritratto. Si tratta solo di qualche giorno, spiega l'artista.
Il giovane scrittore americano ovviamente accetta, non rendendosi conto  di quale meravigliosa ma travagliata odissea sta per cominciare.
Lord diventerà un ostaggio per quasi venti giorni.
Rimarrà bloccato a Parigi in balia dei turbamenti artistici di Giacometti che ossessivamente crea e distrugge un ritratto che sembra interminabile.
Verrà catapultato nella quotidianità dell’artista.
Sarà spettatore incuriosito di tutti i suoi più intimi drammi e delle dinamiche legate alle persone che gli girano intorno.
L’atelier in rue Hippolyte-Maindron 46 è l’incandescente fulcro, il luogo dove accade tutto.
Ed ecco Annette, la giovane moglie insoddisfatta. Caroline la giovanissima prostituta che ossessiona Giacometti. Diego, il pacato fratello e assistente che in disparte osserva, dispensa consigli e ristabilisce gli equilibri. Isaku Yanaihara, amico, modello nonché amante di Annette.
Uno stile di vita anticonvenzionale ma con i suoi precisi contrappesi.

Geoffrey Rush nel film Final Portrait

Lo studio dell’artista; un territorio misterioso ed emozionante. E’ qui che ogni giorno Giacometti e Lord ‘duellano’ tra loro a colpi di pennellate e parole. L’uno più sarcastico e sfrontato, l’altro più trattenuto e laconico.
Ad un primo sguardo superficiale l’atelier è solo disordine e polvere ma poi l’epifania, il materializzarsi del percorso mentale che porta alla realizzazione di un’opera d’arte. E’ come la scena di un delitto in cui il visitatore deve esplorare e ricostruire. Seguire le tracce, perdersi nelle lucubrazioni dell’atto creativo.
Trovare quell’imponderabile nascosto nel volto dell’altro, svelare quell’espressione unica ed autentica che supera il reale.
“Il sublime oggi per me è nei volti più che nelle opere.” (Alberto Giacometti)
Ossessivo ed insoddisfatto del proprio lavoro, Giacometti alterna loquacità a silenzi per poi arrivare a scatti d’ira.
Si lascia andare a sprezzanti considerazioni sul lavoro di Picasso e Chagall; s’infuria con la moglie; si dispera per la sparizione della sua amante come se con lei fosse svanito tutto il suo furor creativo.
Distrugge sculture ‘senza speranza’; indignato brucia disegni; perde o butta via enormi somme di denaro che per lui non hanno nessuna importanza.
“Sostanzialmente, io non lavoro più per niente che non sia la sensazione che provo mentre lavoro.” (Alberto Giacometti)

Geoffrey Rush e Armie Hammer nel film Final Portrait

Stanley Tucci aveva acquistato i diritti del libro A Giacometti portrait di James Lord con l’intento di realizzare un film che focalizzasse uno spaccato di vita di questo straordinario artista; precisamente i giorni in cui Giacometti lavora al ritratto di Lord.
Final Portrait è stato girato alludendo al mockumentary.
Ci sono alcuni momenti ‘estranianti’ in cui sembra di trovarsi davvero nello studio parigino dell’artista che discute in italiano col fratello oppure assorto lavora ad una scultura e poi, con estrema naturalezza, si torna sul binario della narrazione filmica.  
L’uso della soggettiva e della camera a mano ci catapulta sui personaggi e sulle azioni, contrapponendosi alla staticità delle sedute di posa e all’oppressione del ristretto e caotico spazio dell’atelier.
Geoffrey Rush ci regala un'altra grande prova d’attore ed emoziona come riesce a far rivivere e far conoscere, in tutte le sue piccole peculiarità e nevrosi, l’artista svizzero.
Come sua antitesi Tony Shalhoub, che interpreta Diego Giacometti, è stupendo nel ruolo del fratello taciturno, sagace e oculato che lavora silenziosamente dietro le quinte, a sostegno della celebrità dell’altro.  
Final Portrait è stato molto pensato e fortemente voluto.
Si percepisce soprattutto l’autentica dedizione che Tucci ha investito in questo progetto che aveva in cantiere da dieci anni.
L’umorismo, la raffinatezza, l’attenzione nel ricostruire minuziosamente il microcosmo di Giacometti con tutti i suoi piccoli rituali quotidiani.
Pochissimi esterni. Stanley Tucci chiude gli spettatori nell’atelier insieme ai due protagonisti e ci mostra tutta la meraviglia, la frustrazione, l’incoerenza, la debolezza di un Giacometti negli ultimi anni di vita, sempre alla disperata ricerca di dare forma alla sua visione interiore dell'umanità.

Final Portrait, Geoffrey Rush nel ruolo di Giacometti 

Si entra nel suo tormentato processo creativo che non si ferma mai.

Creazione e distruzione sono due facce della stessa medaglia e accettare fallimenti, incompiutezze, azzeramenti fa parte dell’arte come della vita.