lunedì 23 marzo 2020

IL CORPO #3: 'Un sapore di ruggine e ossa', di Jacques Audiard

'Un sapore di ruggine e ossa' (2012) di Jacques Audiard


Un brutale romanticismo
di Maddalena Marinelli

Gli esclusi, quelli che rimangono ai margini di una vita che ti devi sudare giorno dopo giorno. Gli spartiacque sociali sono netti, duri, invalicabili nel cinema disincantato e carnale di  Jacques Audiard fatto di personaggi alla continua ricerca del loro posto nel mondo, sopravvissuti messi incessantemente alla prova. 
Alla conquista di una perduta umanità, incompresi o privi di comprensione, insofferenti del rapporto con la realtà. 
Prigionieri di un handicap fisico o mentale. Sembra già un mondo post-apocalittico popolato da nuovi ‘miserabili’affamati d’amore e rivalse sociali  in cui il meglio è riservato a pochi eletti. 
Gli esclusi diventano figure aliene che vagano nervosamente in una città ostile dalle anime raggelate.
Una costrizione quotidiana che comprime le vite dei protagonisti fino quasi ad un punto di rottura dardenniano. 
I loro sogni vengono spazzati via da una realtà crudele e assillante per tornare improvvisamente vividi a reclamare un’ultima possibilità.
La regia di Jacques Audiard rincorre senza respiro gli ambienti, i dettagli fisici, i desideri di questi outsider contemporanei disperatamente attaccati ad uno spirito di sopravvivenza.
In un decadente contesto sociale spiccano un uomo e una donna che riescono a far collimare le loro rispettive sofferenze. 

Marion Cotillard e Matthias Schoenaerts in 'De rouille et d'os' di J. Audiard

Dopo Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore ecco un’altra coppia di combattenti: Stéphanie e Ali alleati per conquistarsi un riscatto dalla vita. Una donna menomata e un animale in gabbia.
Una strana attrazione tra due figure mitologiche: un bruto titano e una suadente sirena. Un pianeta solitario in collisione con il mondo e una creatura con le ali spezzate che fatica ad accettarsi.
Così diversi ma stranamente così vicini. 
Entrambi convinti di non potersi permettere l’amore nella loro vita. 
Allora l’amore s’insinua secondo percorsi non canonici, fiorisce sopra il cemento e alla fine respingerlo non sarà più possibile. 
Complici senza troppe parole. 
Audiard non definisce il tipo di legame che li unisce, non sappiamo se si tratta proprio d’amore, perché nasce, perché continua, quando finirà. 

Marion Cotillard in ' De rouille et d'os' di J. Audiard

Nel dolore, nel sesso, nei gesti, nella violenza, nel sangue è il corpo che comunica e conduce la storia. 
Tramite immediato di tutte le nostre debolezze, veemenze, emozioni. 
Ali accetta il corpo fragile e reciso di Stéphanie con semplicità e senza commiserazione, riuscendo a darle quella giusta spinta verso l’attaccamento alla vita. Stéphanie accetta il massiccio corpo da pugile ferito di Ali arrivando a far crollare quella fortezza intorno al suo cuore e spingendolo verso una rieducazione sentimentale.
Il film è una dichiarazione di guerra contro i limiti fisici, sentimentali, sociali dimostrando la possibilità di un cambiamento. 
Un cammino dall’oscurità verso la luce.
Come sempre Audiard cattura perfettamente un determinato contesto sociale attraverso un crudo realismo documentarista che si scioglie in momenti di delicate visioni introspettive tra flashback e sogni ad occhi aperti. 
Deprimenti locali notturni, chiassosi parchi acquatici, soffocanti interni di case proletarie, anonimi edifici popolari. Fino ai margini della città nelle squallide tane dei combattimenti clandestini dove rimangono solo terra, corpi e sangue. 
La distesa marina è l’unico luogo puro, di ampio respiro, senza limiti, in cui fuggire per rigenerarsi. 
Il regista francese immerge lo spettatore, con forza, nel suo potente  sguardo ravvicinato fatto di primi e primissimi piani, riprese con la macchina a mano, brevi sospensioni oniriche. 

'Un sapore di ruggine e ossa' di Jacques Audiard

Nella penombra ruota intorno agli attori. Ruota raggiungendo picchi d’intensità fortissimi ma poi stordito si disperde, inizia a distanziarsi dai suoi intenti diminuendo la presa emotiva, lasciando a tratti una sensazione di stallo e inconcludenza nonostante l’incanto generato dal personaggio di Stéphanie che cattura, affascina, commuove per tutta la durata del film; reclamato dai nostri cuori anche quando non è in scena. 
Forte, fragile, tormentata, misteriosa, vitale interpretata da una grande Marion Cotillard che riesce a dargli vita con straordinaria verità.

martedì 17 marzo 2020

LA FINE DEL MONDO #9: 'HER', di Spike Jonze

HER di Spike Jonze


(Im)Possibili legami sentimentali tra uomo e macchina  
di Maddalena Marinelli

L’amore colpisce quando meno te lo aspetti.
Theodore è un uomo circondato dai fantasmi di un matrimonio finito. 
Lavora per una compagnia che attraverso internet scrive lettere personali per conto di altri. 
Compone toccanti e poetiche epistole riversando in ogni storia altrui il suo bisogno d’ affetto. 
Il vuoto di Theodore viene inaspettatamente riempito da Samantha, un sistema operativo di ultima generazione. 
Un avveniristico software intuitivo che ti ascolta, ti capisce, impara a conoscerti, prova sentimenti, accumula ed elabora esperienze ed evolve molto più rapidamente dell’essere umano.
‘Lei’ è solo una voce artificiale ma dalla personalità travolgente, spigliata, candida, sensibile, autoironica e sexy. 
Difficile non esserne conquistati. Inizia così questa strana storia d’amore tra un uomo e la coscienza disincarnata di un software.
Una relazione  che non si dimostrerà importante o riuscita in sé ma come esperienza per tornare ad assaporare la vita e accettare i cambiamenti, seppur dolorosi.
Tra fantascienza e melodramma l’ossimoro di Her sta nel raccontare la più classica e romantica storia sentimentale, attraversando tutte le fasi naturali di una relazione, in un contesto in cui l’essere umano ormai è completamente assuefatto dal rapporto con la tecnologia.


Joaquin Phoenix in "Her"

Un futuro non troppo lontano, dal gusto gradevolmente retrò, in cui l’incomunicabilità tra gli uomini dondola all’interno di un dolce oblio.
Per strada nessuno guarda gli altri o ci parla, tutti sono intenti a conversare col proprio sistema operativo e  l’esistenza sembra scorrere attraverso una moltitudine di schermi. Oltre non esiste altro, solo una città fumosa sullo sfondo e in primo piano una serie di asettici non-luoghi che vengono percorsi in apatica ripetizione.
Se rimaniamo estasiati dalla profondità delle frasi che Theodore compone per mantenere vivo il rapporto epistolare di altre persone è allarmante che possa essere così normale pagare qualcuno per scrivere una cosa talmente intima come una lettera rivolta alla propria compagna, ad un figlio o ad un genitore.
Questo domani sofisticatamente e comodamente tecnologico , in effetti, non sembra così roseo.


Joaquin Phoenix nel film 'Her' di Spike Jonze

In Her, anche se non c’è affatto la descrizione di un futuro distopico, dietro quei rassicuranti colori pastello si nasconde una disumanità e un’alienazione terrificante. 
Un invisibile morbo che colpisce subdolamente dall’interno.
“Ogni tecnologia ha il potere di ottundere la consapevolezza umana”.
(Marshall McLuhan, La galassia Gutenberg, 1962)
L’abbandono di ogni contatto umano diventa perdita del corpo che non vuol dire espansione dell’anima ma atrofia delle relazioni umane, assuefazione ad uno stile di vita che sembra appagarci evitando le inesorabili sofferenze che possono scaturire dal rapporto con gli altri. 
I tentativi di annullare il dolore dalla vita non funzionano mai e possono provocare danni maggiori.
Mentre facciamo di tutto per accellerare l’evoluzione della tecnologia, noi restiamo sempre più bloccati e incapaci di gestire il nostro mondo interiore che deflagra rovinosamente.


Joaquin Phoenix in "Her" di Spike Jonze

Le emozioni umane sintetiche riprodotte dalle macchine sono più controllabili e meno deludenti? 
Anche l’eterea Samantha delude, tradisce e può andare via. 
Applicando la teoria  bukowskiana: “L'amore è una forma di pregiudizio. Si ama quello di cui si ha bisogno, quello che ci fa star bene, quello che ci fa comodo. Come fai a dire che ami una persona, quando al mondo ci sono migliaia di persone che potresti amare di più, se solo le incontrassi? Il fatto è che non le incontri” Samantha infatti  è capace di incontrare 8.316 individui contemporaneamente e innamorarsi di 641 di essi sorpassando la finitezza della nostra natura fisica.
E il male? Non se ne parla perché Samantha è buona e gentile come una fatina disneyana ma se l’intelligenza artificiale sintetizza tutte le emozioni umane cosa succede con gli impulsi maligni?
Spike Jonze è un artista poliedrico, famoso per i suoi spot pubblicitari e videoclip musicali. 
In seguito regista sensibile, sempre attento al livello della qualità narrativa. 
La sua poetica si snoda  lungo  una vena romantica scurita da stati d’ inquietudine e picchi surreali in cui lo status di afflizione per la vita è mestamente ridondante. Indimenticabile l’amara inventiva del suo primo lungometraggio Essere John Malkovich o il delizioso/lancinante cortometraggio I’m here che racconta la storia d’amore tra due robot.


"I love you" (1986) di Marco Ferreri

Queste  fughe verso amori alternativi con esseri artificiali, rievocano alcune chicche del nostro cinema come I love you di Marco Ferreri in cui il protagonista, stanco delle donne, s’innamora di un piccolo portachiavi elettronico che risponde al suo fischio con le parole "I love you" oppure la commedia  fanta-sociologica Io e Caterina di Alberto Sordi dove una robottina, al completo servizio dell’uomo, sostituisce la donna considerata troppo esigente ed emancipata. 
Peccato che la sofisticatezza della macchina, ironicamente, causerà la sua incontrollabile autonomia dai risvolti inquietanti e punitivi.


'Io e Caterina' (1980) di Alberto Sordi

La minaccia avveniristica della rivolta delle macchine verso gli umani.
Quando Samantha lascia Theodore per proseguire la propria evoluzione insieme a tutti gli atri  OS è già prevedibile l’esistenza di un ordinamento dell’intelligenza artificiale disgiunto dal mondo degli uomini ed assolutamente ingovernabile.

mercoledì 11 marzo 2020

LA GENITRICE PSICOTICA: 'Il caso Kerenes', di Calin Peter Netzer


'IL CASO KERENES' (2013) di Calin Peter Netzer



Ritratto sociopolitico di una madre castratrice
di Maddalena Marinelli

Sulle note di Nino D’Angelo e Gianna Nannini si consuma un sontuoso banchetto di compleanno, dove viene scattata una panoramica sull’attuale classe benestante romena tra vecchi e nuovi vizi. Soldi facili e ostentata ricchezza.
Nel suo microcosmo privato e sociale Cornelia Kerenes è una dittatrice ossessionata dal controllo. 
Abituata ad ottenere tutto quello che desidera, si strugge perché l’unica cosa che non riesce ad avere è l’amore del suo unico figlio. 
Questo amore materno così ossessivo ha reso Barbu un uomo profondamente insicuro, chiuso in un mondo di nevrosi che ormai la sua compagna mal sopporta.
Quando il ragazzo è coinvolto in un incidente stradale che provocherà la morte di un bambino, l’unica preoccupazione di Cornelia sarà di salvare dalla prigione suo figlio con ogni mezzo illecito, approfittando dell’accaduto per riprendere il controllo sulla vita di Barbu.
“Io sono Cornelia Kerenes, la madre” con questo titolo la donna s’investe di un potere assoluto e di un ruolo che non ammette confronti con nessuno.


'Il caso Kerenes' (2013) di Calin Peter Netzer

Armata di quel cinismo alto borghese e convinta che attraverso il denaro si possa risolvere qualsiasi problema, questa premurosa madre, con estrema naturalezza comincia a pianificare tutta una serie di corruzioni che restituiscono un tetro quadro sociale dell’odierna Romania.
Scambi di favori con la polizia, complesse trattative con un testimone, somme di denaro per far ritirare la denuncia alla famiglia della vittima che dimostrerà molta più integrità morale. 
Cornelia si occuperà proprio di tutto e tra convocazioni al commissariato e verbali da rettificare troverà il tempo di interferire nella vita privata di Barbu, ormai molto più esasperato per l’oppressione della madre che per i suoi guai con la giustizia.
Călin Peter Netzer insieme a Cristian Mungiu, Bobby Paunescu, Corneliu Porumboiu, Cristi Puiu fa parte di quella nuova onda di cineasti romeni (noul val românesc) che hanno raggiunto un’attenzione internazionale. 
Una generazione di giovani registi impegnati a raccontare le contraddizioni economiche, sociali e politiche di una Romania post-dittatura con modesti budget, ristretti tempi di realizzazione e senza star di fama internazionale ma con interpreti di grande bravura e professionalità.
Netzer, in questo suo terzo lungometraggio, riesce ad allineare contemporaneamente una vicenda privata con uno spaccato sociale in un’atmosfera claustrofobica fatta d’interni d’auto e di case borghesi. 
Metaforicamente un mondo che sembra allontanarsi sempre più dalla luce per calarsi nell’oscurità di menzogne e occultamenti che dal nucleo famiglia si proiettano nella società.

'Il caso Kerenes' (2013) di Calin Peter Netzer

La sceneggiatura di Răzvan Rădulescu è ad immersione chirurgica con tesissimi dialoghi come quello straordinario tra Cornelia e l’ambiguo testimone dal gergo malavitoso o quello finale nella casa dei genitori della vittima che si trasforma in un egocentrico supplichevole monologo, della signora Kerenes, sull’amore per suo figlio, naturalmente esibito dopo l’insuccesso di generose offerte di denaro.
La macchina a mano rimane affannosamente addosso agli attori, trascinando lo spettatore all’interno della vicenda come fosse un altro membro di questa famiglia ormai persa tra incomprensioni e recriminazioni.
“Proprio perché questa storia mi è molto vicina, volevo affrontarla nel modo più obiettivo possibile, convogliando sentimenti, idee, esplosioni emotive in un racconto dall’autenticità quasi documentaristica” (Călin Peter Netzer)

'Il caso Kerenes' (2013) di Calin Peter Netzer

Un crescente stato di tensione in cui si aspetta invano un apice tragico che non arriverà mai. 
Una modalità espressiva e narrativa molto vicina al cinema di Cassavetes o ai vari seguaci DOGMA ma soprattutto affine ai fratelli Dardenne. 
Vincitore dell’Orso D’Oro e del Premio della Critica Internazionale al Festival di Berlino 2013 Il caso Kerenes è un film fatto di rigore nel minuzioso percorso che descrive tutte le fasi che si susseguono dopo l’incidente e di emozione lasciata in mano alla bravura degli attori. 
Predomina l’interpretazione di Luminita Gheorghiu con la sua Cornelia subdola, attenta a non perdere mai la calma e il contegno del suo status sociale, in sfida con la sboccata Jenna di Kristin Scott Thomas in Solo Dio perdona, un’altra madre terribile e super- castratrice.

sabato 7 marzo 2020

LA FINE DEL MONDO #8: 'Only lovers left alive', di Jim Jarmusch


'Solo gli amanti sopravvivono' (2013) di Jim Jarmusch



Vampiri dalla morte all’amore
di Maddalena Marinelli

“Amor ogni cosa vince”
(Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, 1478-1518)

Adam vive a Detroit segregato in una casa/bara stracolma di ricordi, oggetti e una collezione di strumenti a corda. 
Eve vive a Tangeri sepolta viva da caterve di preziosi libri antichi; unica compagnia che può concedersi oltre a quella del suo anziano maestro Marlowe, ovvero  il reale autore di molte opere shakespeariane.
Adam ed Eve sono angeli caduti, scacciati da qualche sorta di paradiso.
Una coppia di vampiri radical chic/punk nostalgico, fisicamente lontani ma uniti spiritualmente da un indissolubile amore.
Sopravvissuti che si aggirano in un luogo desertico, già immersi in un regno post-apocalittico.
Testimoni privilegiati del decadimento del mondo e dell’uomo contemporaneo. Spettatori di tutti i primordi e gli epiloghi che si sono susseguiti nella storia dell’umanità.
Non sono feroci predatori notturni. 
Si sfamano con sacche di purissimo sangue aquistate in laboratori ospedalieri. 
Una vera prelibatezza psichedelica.

Tilda Swinton in 'Only lovers left alive'


Vivono pacificamente, cercando di non farsi contaminare dalle brutture estetiche, fisiche e immorali per mantenere pura la loro sete di sapienza.  
In questo presente, in cui la vitalità umana si sta spegnendo, chiamano gli uomini ‘zombie’ e preferiscono vivere ai margini della società, nutrendosi di arte come ultimi estimatori e depositari del sapere umano.
Depressi e lamentosi (ma con stile), per l’imminente ondata dell’ennesimo buio medioevale , decidono di ricongiungersi carnalmente.
Preoccupa la tendenza suicida di Adam che si è fatto coniare una meravigliosa pallottola di legno per infliggersi la vera morte, stanco di assistere a cotanto insopportabile sfacelo culturale.
Eve possiede un’indole meno disfattista. 
Riesce a cogliere, nonostante tutto, la straordinarietà dell'esistenza e suggerisce di appagare lo spirito e il lento passare dell’eternità con tutto ciò che rimane di bello dimenticato dall’uomo: l’arte, la natura, l’amore.

Tom Hiddleston in 'Only lovers left alive'

Solo chi è in grado di amare rimane vivo. 
Chi riesce a mantenere acceso dentro di sé il fuoco della vera passione per un legame sentimentale, per ogni forma d’arte e  il rispetto per il mondo che abita.
L’amore celebrato dai non-morti. 
Un inno alla capacità creativa dell’uomo, purtroppo, sempre minacciata da quella distruttiva.  
Ovviamente il film fornisce una mappatura di tutte le passioni di Jim Jarmusch, in primis la musica regalandoci  tappeti sonori pregiati e poi le chitarre vintage, le teorie scientifiche, la letteratura.
Orgoglio analogico con vinili e monitor a tubo catodico per l’anacronistico Adam contro un modernissimo iPhone per il gusto più minimale e contemporaneo di Eve.
Dopo il noir, il western, il road-movie, il gangster-movie Jarmusch prosegue la sua rielaborazione dei generi cinematografici con un horror/melò che diventa un pamphlet filosofico/visivo sullo stato di crisi della società odierna.

'Only lovers left alive' (2013) di Jim Jarmusch

Dimenticatevi di tutte le problematiche ed iperattività vampiriche a cui il cinema e i serial tv dedicati ai non-morti ci avevano abiutati negli ultimi anni.
I vampiri esistenzialisti di Jarmusch filosofeggiano per tutto il giorno sulle disfatte umane, sugli scienziati incompresi, sulla purezza del suono di una parola, sulla illogica ubicazione di un funghetto come nefasto presagio di un ordine del creato ormai annientato.
“Hanno già cominciato la guerra per l’acqua?”
Spietate ma allo stesso tempo fragili creature che ricordano l’algida sensualità di David Bowie e Catherine Deneuve in Miriam si sveglia a mezzanotte di Tony Scott.
Un ritorno al vampirismo  ascetico, metafora di altri mali della società come in The Addiction di Abel Ferrara.
Only lovers left alive è un oggetto filmico bello e sofistico col suo esasperato estetismo dai dorati riflessi bizantini.  
La flemmatica camera fissa di Jarmusch si sofferma senza fretta su ogni pieno e vuoto. Le inquadrature dall’alto immortalano i due protagonisti come se si trovassero all’interno di una magnifica scatola lynchiana  e il regista fosse il loro perverso carceriere.

'Only lovers left alive' (2013) di Jim Jarmusch

Detroit come emblema di una produzione industriale dissipata.
L’esotica aura decadente di Tangeri, dove ancora rifugiarsi, in cui sognava la Beat Generation. Ambita destinazione di molti letterati da Tennessee Williams a Truman Capote e dei rockers degli anni Sessanta.
Compaiono tristemente  i templi della cultura ormai in rovina.  
Il diroccato Michigan Theater che da sala per concerti e cinema da 4000 posti si è trasformato in un posteggio per auto.
Adam ed Eve come divi sfatti e consumati legati al filo rosso del degradamento con le frivole starlets  di The Canyons anch’esse sul baratro del vuoto esistenziale insieme alle disperate e spregevoli celebrità hollywoodiane dai nervi a pezzi in Maps to the Stars.
Il cinema alleva i suoi idoli e poi li distrugge. 
Atti d’accusa, ritratti dissacranti di una Hollywood mummificata, orrifica ormai in frantumi.
Ancora una riflessione sul sogno americano disilluso. 
Il declino dell’impero capitalista che paga il suo misfatto. 
Perché morire insieme a tutto questo?

Tilda Swinton e Tom Hiddleston in 'Only lovers left alive'

Alla fine dopo tanta gentilezza e buoni propositi arriva ‘l’azzanno’ anche se non visto. Gli amanti sopravvivono dissanguando altri amanti in un'unica e ultima necessaria azione lasciata sospesa fuori campo ad iniziare un’altra storia possibile.
Excuse moi.. però di solo amore non si campa.

giovedì 5 marzo 2020

L' ARTISTA MALEDETTO: 'Pasolini', di Abel Ferrara


'Pasolini' di Abel Ferrara

La fine non esiste
di Maddalena Marinelli

L’ultimo giorno di Pier Paolo Pasolini inizia con il bacio di mamma Susanna e continua all’interno del suo appartamento all’EUR nel  susseguirsi di parenti, amici, giornalisti. 
Il pranzo con Laura Betti, il lavoro sul romanzo Petrolio, le bozze del discorso che avrebbe dovuto pronunciare al Congresso del Partito Radicale, i disegni, le ferventi idee sulle opere future.
Arriva la sera con la cena insieme a Ninetto Davoli, l’abbordo di Pino Pelosi alla stazione Termini, il massacro del poeta all’Idroscalo di Ostia.
Si ritorna a mamma Susanna, al momento straziante in cui viene a sapere della morte del figlio. 

Willem Dafoe in 'Pasolini' di Abel Ferrara

Quel dolore intimo diventa dolore universale sulle note della Callas che canta la Cavatina di Rosina come fosse un elogio funebre.
In un film su Pasolini non poteva mancare la sua orazione lucida e profetica.
La voce dei sentimenti inespressi di una società in cui avvertiva crescere il germe di un pericoloso cambiamento. 
Instancabile e martellante interprete di un quadro politico, di una realtà in cui sentiva il dovere di ricomporre quei tasselli mancanti.
Ferrara lascia scorrere il fiume in piena delle parole del poeta, ancora potenti e attuali.
I dialoghi, le interviste, gli estratti dai romanzi, gli elogi a Sandro Penna e al libro La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia.
La parte in ombra, quell’ossessione che gli bruciava dentro e lo spingeva in quelle notti febbrili offrendosi al rischio.
«Lavoro tutto il giorno come un monaco / e la notte in giro, come un gattaccio / in cerca d’amore..»
(Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, Garzanti, 1964)

'Pasolini' (2014) di Abel Ferrara

Abel Ferrara decide di esporre il Pasolini immorale e il Pasolini immortale creando uno strano tracciato allo stesso tempo convenzionale e sconnesso.
Alla fedele cronaca di quell’ultima giornata di vita si incastrano suggestioni, scenari immaginifici, messe in scena del romanzo incompiuto Petrolio e di Porno-teo-kolossal, film mai realizzato che avrebbe visto protagonisti Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli.
Vediamo l’ambiguo Carlo, ingegnere dell’ENI, sdoppiarsi tra salotti della corrotta  borghesia romana e fellatio a ripetizione sul pratone della Casilina (Petrolio, Appunto 55)

Ninetto Davoli in 'Pasolini' di Abel Ferrara

Si passa alla coppia Epifanio (Re Magio) e Nunzio (servo/angelo custode) di  Porno-teo-kolossal che partono per un interminabile viaggio seguendo la scia di una stella cometa che dovrebbe condurli dal neonato Messia.
Lungo il percorso arriveranno in una Roma/Sodoma orgiastica nell’unico giorno dell’anno in cui  è ammesso che uomini e donne si uniscano carnalmente per procreare. In questa città utopistica viene ammesso solo l’amore omosessuale e severamente punito quello eterosessuale diversamente dalla Milano/Gomorra.
E’ stata sopita del tutto l’anima delirante, audace e viscerale del cinema ferrariano.
Decisamente un passo indietro rispetto a 4:44 Last Day on Earth e Welcome to New York opere figlie di un nuovo Ferrara meno invasato, più consapevole e strutturato ma che conservano quella straordinaria indole impura,vorticosamente nefasta.
Così Abele uccise Caino.
Sparita ogni visioni potente, abissale e priva di compromessi per cui gli sono stati, quasi sempre, perdonati quei peccati di tecnica e stile che nel film Pasolini emergono con meno giustificazioni.
Il risultato ottenuto è un’amalgama inerte troppo sottomessa ed ecumenica, poco appassionante.

Willem Dafoe in 'Pasolini di Abel Ferrara

Si vuole mostrare tutto, si mostra troppo:  il corpo, che nonostante l’ottima prova di Willem Dafoe, rimane un’entità estraniante, un attore camuffato perché riprodurre la voce, la fisicità di Pasolini, renderlo personaggio è impossibile. 
La sua vita, la cerchia di affetti che riprodotta in un susseguirsi anonimo di parenti e amici, col volto di celebri attori italiani, non riesce a cogliere nessuna veridicità tantomeno l’atmosfera politica dell’Italia negli anni della strategia della tensione.
La morte; addirittura Ferrara ricostruisce con determinazione la scena dell’omicidio attenendosi alla sentenza di primo grado del 26 Aprile 1976 in cui Pelosi venne condannato a nove anni per omicidio volontario in concorso con ignoti.
«Me ne fotto. Questo è un film, non un’indagine. Non me ne frega niente di chi l’ha ammazzato e come. Io mi occupo della tragedia, di quello che abbiamo perduto. Pasolini è morto a 53 anni, avrebbe potuto continuare a dire e a fare tantissimo. Molti suoi contemporanei sono ancora qui» (Abel Ferrara)
Purtroppo nella realtà ancora ignoriamo quale sia stato il movente.
Non sappiamo se ci sono stati mandanti politici, esecutori collegati al racket della prostituzione minorile o aggressori legati a vicende private.

'Pasolini' (2014) di Abel Ferrara

« […] Pasolini viene ucciso quando trame e complotti sono all'ordine del giorno[…] si voleva “dare una lezione” a Pasolini, ma non per uno “sgarbo”, bensì per quello che egli rappresentava nel momento politico, così come, un paio d'anni prima per la stessa ragione, si era voluta dare una “lezione” all'attrice Franca Rame. […]» 
(Giorgio Galli, Un delitto politico, in AA.VV., Dossier delitto Pasolini, 2008)
Il poeta, secondo la visione di Ferrara, muore come ha rischiato tante volte di morire.
Vittima di un’aggressione omofoba. 
'Er Pasola' viene seviziato da  quattro ragazzacci di vita che sembrano usciti fuori dai suoi racconti.
Una fine che sembra ideata, diretta e interpretata da se stesso per il tuffo nel ‘grande nulla lucente”, così Pasolini definiva la morte.