venerdì 6 ottobre 2023

PAESE MIO TI LASCIO E VADO VIA: ‘YOUNG ADULT’, di Jason Reitman

                                                                      

                                              MAD CULT

'YOUNG ADULT' ( 2012) di Jason Reitman

Quei finti cattivi
di Maddalena Marinelli

Jason Reitman è riuscito a mantenersi sempre a debita distanza dalle scelte registiche del padre Ivan che ricordiamo per Ghostbusters, Meatballs, La mia super ex-ragazza
Chissà da bambino quanto si sarà divertito su quei set goliardici in cui qualche volta ha recitato piccole parti.
Da grande però Jason decide che il suo cinema non seguirà l’esempio paterno.
Così trova la sua strada dimostrando di riuscire a rendere nuova e unica la commedia, proprio quello stesso genere che ha reso tanto celebre il padre in chiave più leggera e demenziale. 
Nei primi sei anni di carriera ha calibrato accuratamente ogni suo film con minuzia e intelligenza non sbagliando nemmeno una virgola in questo risoluto percorso “in divenire” che sta costruendo.
E’ un regista a sangue freddo, ama comporre e soffermarsi sui dettagli visivi che riprende da piaceri e gusti personali ma soprattutto il suo lavoro è di sana sceneggiatura con un’attenzione mirata sui dialoghi.
Quindi importante il suo sodalizio con la sceneggiatrice Diablo Cody.
Gli impudenti, sinceri, esaustivi dialoghi a dibattito esistenziale e furori ideologici sono il cuore pulsante dei suoi film.
Queste commedie dal sapore amaro e dal tocco ruvido, guardano con occhio critico la società americana odierna affrontando tematiche e personaggi scomodi. 
Anzi i suoi personaggi sono scandalosi e stridenti. 
La quindicenne incinta, il promoter dell'industria del tabacco, il tagliatore di teste aziendale, la scrittrice egoista e rovina famiglie rimasta allo stadio adolescenziale. Soggetti votati all’antipatia, incompresi sia dentro l’universo sociale descritto nel film sia fuori dagli spettatori in sala.
Non hanno scampo, solo brevi cenni di redenzioni che rimarranno sospese o disilluse sul finale. 
Tutto ruota intorno a questo sgradito protagonista caratterizzato fortemente con tratti pesanti quasi caricaturali. 
Intorno si muovono gli altri personaggi che minano il suo invalicabile regno psicologico fino a far saltare il guscio, far precipitare quell’identità fasulla e svelarne l’insicurezza, l’umanità.
Poggiano in un acre limbo disciolti nel sarcasmo in cui la disperazione viene sempre bloccata ad un certo livello affinchè non diventi altro che la formula della commedia, a quel punto, non potrebbe reggere.  

Charlize Theron in 'Young adult' di Jason Reitman

Quando le maschere cadono i finti cattivi sono richiamati alla realtà ma il difetto è in loro o nelle ipocrisie della società? Ed ecco che inevitabilmente gli interrogativi, i problemi o le risoluzioni convertono nei legami di sangue.
In Juno si affollano vari esempi di famiglia ovvero quella desiderata, quella fallita, quella di cui ci si deve per forza accontentare. 
In Thank You for Smoking l’unico confortante, fedele ed autentico riferimento affettivo per Nick Naylor è suo figlio. 
In Up in The Air la famiglia per Ryan Bingham non esiste è un concetto completamente respinto e quando esiste è quel luogo che si nega e da cui si scappa come fa la sua amante Alex.
In Young Adult la trentasettenne Mavis Gary è convinta che tutti i mali siano concentrati non solo nella sua parentela ma dilaghino nella comunità della piccola cittadina in cui è cresciuta e che si è lasciata alle spalle per non sprofondare in una vita mediocre e banale. Peccato che in città, l’ex ragazza più popolare del liceo, sia diventata una specie di nerd alcolizzata e depressa affogata nell’anacronismo. 
Anche i più belli, popolari e vincenti s’incasinano e diventano dei falliti.

'Young adult' di Jason Reitman

Per uscire da questo tunnel Mavis parte per un’ improbabile crociata alla riconquista del suo fidanzato del liceo, oramai sposato e con prole.
Dovrà rimettere piede nell’odiato paesello per riprendersi quello che nella sua testa è l’unico uomo che  potrà renderla finalmente felice. 
Quest’idea tra il romantico e il patetico sembra rubata alla Meg Magrath di Crimes of the Heart e vi sono moltissime altre affinità con lei, anche se Mavis non è così melodrammatica  ma irosa e sarcastica. 
E’ una donna dall’identità disfatta e vuota. 
Per riuscire a piacere punta superficialmente sulla sua bellezza. Non riesce a provare nessun sentimento autentico. E’ gelida e indifferente verso il resto del mondo.
Quando dichiara il suo amore redivivo, a quell’uomo su cui ha tanto fantasticato, usa parole rubate a conversazioni di adolescenti in fast food. 
Anche quando arriva il momento di sottoporsi ad un brusco risveglio alla realtà, Mavis decide di non uscire dal suo reame incantato.

Charlize Theron in 'Young adult' di Jason Reitman

Stabilisce che sono gli altri i malati di conformismo, i rassegnati ad una vita ordinaria. Lascia le ultime riflessioni al suo alter-ego letterario che continuerà nel virtuale le azioni interrotte e impedite nel reale.
Un film visivamente pieno di sfumature, rimandi e dettagli che conducono lo spettatore ad immergersi pienamente nella psicologia dei personaggi.
Reitman crea la versione antitetica di Il matrimonio del mio miglior amico in cui il sorriso di Julia Roberts è sostituito dal broncio ringhioso di Charlize Theron e invece dell’affascinante gay interpretato da Rupert Everett c’è il goffo e menomato amico/consolatore interpretato da un tenero Patton Oswalt.
Il caustico Reitman demolitore delle filmografie di Garry Marshall, P. J. Hogan, Nora Ephron ama evidenziare i difetti, le brutture e le debolezze attraverso anomali commedie che invece di rassicurare gli animi e ricomporre un ordine benefico nelle cose ci trascinano dentro un itinerario americano malefico, caotico e disincantato lasciandoci vacillare verso un futuro incerto tra l’orrendo e il radioso.

martedì 5 settembre 2023

LA FINE DEL MONDO #13: ‘OPPENHEIMER’ di Christopher Nolan

 

'OPPENHEIMER' di Christopher Nolan

Nascita della morte atomica 

“L'uomo ha scoperto la bomba atomica, però nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi.”(Albert Einstein)

Nell’anima dell’uomo l’istinto di creazione è legato a quello di distruzione.
«Sono diventato Morte, il distruttore di mondi»
La frase da brivido pronunciata da un creatore/distruttore, ovvero, lo scienziato Robert Oppenheimer quando la nube della bomba atomica si levò in distanza nel deserto di Los Alamos, dopo l’esito positivo del Trinity Test.
Nolan invece decide di far declamare tale frase, tratta dal poema sanscrito Bhagavadgita, ad un giovane Oppenheimer molto prima del progetto Manhattan, durante un amplesso con Jean Tatlock.
Tramite un atto d'amore si genera una profezia di morte.
Inquietudini, presagi che ebbero fondamento.
La terribile consapevolezza che la sua scoperta, il suo contributo all’umanità era un’arma, di una potenza mai vista prima, in grado di annientarla.

'Oppenheimer' di Christopher Nolan

La mente scientifica più brillante della sua generazione il 16 luglio 1945 gettò l’ombra dell’olocausto atomico sul Pianeta; una concreta minaccia si insidiò per sempre nel destino dell’uomo. tutt’ oggi ben presente.
“Stiamo dicendo che c’è una possibilità che spingendo quel pulsante distruggiamo il mondo?” chiede il generale Groves a Oppenheimer poco prima di testare ‘The Gadget’.
Il fisico risponde: "Cosa pretende dalla sola teoria".
Un'immensa luce bianca che diventa un mostro di fuoco inarrestabile.
'l gadgetima di testare la bomba poco prima di testare la bomba nel deserto nel New Mexicoo
C’era la possibilità (definita ‘quasi zero’) che la bomba una volta esplosa non potesse interrompere la sua forza prorompente. 
La detonazione poteva dare inizio a una reazione a catena senza fine, dando fuoco all’atmosfera terrestre, distruggendo l’intero Pianeta ma questo non fermò il Manatthan Project e il Trinity Test.
Non erano più speculazioni, formule, astratte scissioni, teorie ma un autentico ordigno capace di scarnificare, dilaniare, disintegrare corpi e molto di più, poiché a causa delle radiazioni sappiamo che i morti e i contaminati colpiti da malattie mortali continuarono ad esserci per anni.
Una tragica scoperta per tutti quei giapponesi che pensavano di essere sopravvissuti al bombardamento e che invece morirono giorni, mesi, anni a venire.

Cillian Murphy in 'Oppenheimer' 

Il dilemma etico.
Quando la scoperta scientifica deve fare un passo indietro?
Quando uno scienziato deve fermarsi?
Forse prima che la sua creazione diventi una minaccia incotrollabile per il Pianeta invece di essere un beneficio.
L’Oppenheimer di Nolan oscilla tra gloria e dannazione.
Sceglie di essere prima scienziato e poi uomo.
Farlo per non permettere ai nazisti di arrivare per primi all’utilizzo di un ordigno nucleare.
Farlo per far finire la guerra ed evitarne di altre; almeno finchè qualcuno non avrebbe creato una bomba più potente.
L'American Prometheus decide di non fermarsi davanti all’occasione di diventare il fautore di una scoperta, seppur deleteria, che avrebbe cambiato per sempre la Storia dell’umanità consacrandolo tra i più grandi scienziati del mondo.
La responsabilità politica.
<Non la capiranno finchè non la useranno> asserì il padre dell’atomica.
E per capire ci sono voluti 250.000 vittime ad Hiroshima e 74.000 vittime a Nagasaki.
Tre secoli di fisica culminati nella realizzazione di una bomba suprema.
Una grande follia raggiunta con il brillante raziocinio delle menti scientifiche più illustri del nostro nefasto Novecento.
“I fisici hanno conosciuto il peccato e questa è una conoscenza che non potranno perdere.” (R. Oppenheimer)

Cillian Murphy e Emily Blunt in 'Oppenheimer'

In Oppenheimer lo sguardo di Nolan si affaccia sul baratro della fine del mondo; indaga sul creatore che viene distrutto dalla sua creatura; sulla vanità umana che inarrestabile convoglia alla distruzione; sull’uso improprio della ‘conoscenza’ che può portare alla dannazione.
Il giovane Robert Oppenheimer è un brillante studente di fisica appassionato di poesia ma dall’animo introverso e tormentato, assillato da visioni di un Universo nascosto.

'Oppenheimer' di Christopher Nolan

Epifanie, percezioni allo stesso tempo accattivanti e minacciose. 
Quasi profezie del futuro.
La sua audacia , le sue intuizioni, la stima di molti colleghi e le sue doti organizzative lo porteranno ad essere scelto, nel 1942, per formare e coordinare il gruppo di scienziati del Manhattan Project e al successo del Trinity Test.
Così gli Stati Uniti furono i primi ad avere una bomba nucleare per perseverare nei soliti propositi suprematisti e far vedere al mondo di cosa erano capaci.

'Oppenheimer' di Christopher Nolan

Il gusto della vittoria presto saprà del sangue versato in Giappone, dopo lo scoppiò di Little Boy e di Fat Man.
Eroe o traditore?
Durante il maccartismo il governo degli Stati Uniti perseguiterà  Oppenheimer sottoponendolo ad un’ inchiesta,  istigata da Lewis Strauss, per via delle sue simpatie comuniste. 
In conclusione lo definirono un cittadino leale ma allo stesso tempo gli  vietarono l’accesso ai segreti atomici, escludendolo dalla possibilità di influire su decisioni politiche in merito.

Emily Blunt e Cillian Murphy in '0ppenheimer'

< Ti sei lasciato ricoprire di fango pensando che il mondo così ti perdonerà ma questo non accadrà> la spietata affermazione di un’ indignata Kitty al marito Robert, per lei troppo ‘passivo’ nell’accettare le tante diffamazioni durante l’inquisizione che lo screditò di fronte al mondo intero.
Nolan manipola un puzzle, un intreccio temporale, alternando nella narrazione tre fasi della vita dello scienziato: 
Giovinezza - Progetto Manhattan - Processo.

Robert Downey Jr. e Cillian Murphy in 'Oppenheimer'

Al protagonista Oppenheimer (fissione) si oppone l’antagonista Strauss (fusione) determinando una duplicità cromatica.
Il colore rappresenta la visione soggettiva, come si sono svolti i fatti secondo il punto di vista del protagonista.
Il b/n è la visione oggettiva dell'antagonista.
Nolan è un prestigiatore che rischia, uno scienziato pazzo a cui ogni tanto scoppia in mano una provetta, oppure arriva all’intuizione geniale.
Nel bene e nel male è il regista pioniere del nuovo millennio, il suo cinema ingarbuglione fa incazzare, accende il dibattito critico, alimenta profezie, conduce a memorabili visioni.
Questa volta Icaro/Nolan non si è bruciato le ali.
Dopo Tenet meno manierismi e inutili complicazioni. 
Meno forvianti giri pindarici.
Alla continua ricerca della perfetta fusione tra blockbuster e film d’autore, Nolan questa volta  sembra esserci riuscito, raggiungendo il punto più alto della sua filmografia.
L'uomo del prestigio scompone e ricompone un biopic che diventa un legal thriller.

Cillian Murphy in 'Oppenheimer'

Si sofferma su primi e primissimi piani  per far parlare i volti, in primis su quello del superbo protagonista Cillian Murphy che esprime perfettamente tutta l’ambiguità di un Oppenheimer 'genio scellerato' tra incertezza, arroganza, impassibilità e afflizione.
Lo spettatore è trascinato in un ritmo incalzante scandito dall' onnipresente colonna sonora di Ludwig Goransson che già da Tenet aveva trovato una splendida affinità col lavoro di Nolan e qui la riconferma all’ennesima potenza con una superba partitura che evoca l'opera di Philip Glass Einstein on the beach.

'Oppenheimer' di Christopher Nolan

Un film che richiede una certa dedizione e sicuramente più di una visione.
Non lo capirete se non lo rivedrete.
Difficile stare dietro a un tale vorticoso ritmo, soprattutto a causa della densità di terminologie scientifiche e alla verbosità dei dialoghi.
Nolan, come al solito, apre troppe porte senza chiuderle bene.

Florence Pugh in 'Oppenheimer'

Ne fanno le spese soprattutto i tormentati amori di Oppenheimer (Florence Pugh ed Emily Blunt) lasciati appena abbozzati e irrisolti ma questa difficoltà nella scrittura e resa dei ruoli femminili non è una novità nell'opera di Nolan.

Robert Downey Jr. in 'Oppenheimer'

Nei molteplici ruoli di burocrati e scienziati si susseguono i volti più noti del cinema americano ma su questa coralità si stagliano i due mattatori Cillian Murphy e Robert Downey Jr. 
Oppenheimer è un viaggio emotivo ansiogeno ed agghiacciante che ci porta a riflettere sulla nascita di un nuovo ordine mondiale che ha il potere di decretare l’estinzione del genere umano.





 
 



venerdì 11 agosto 2023

L' ARTISTA MALEDETTO #5: Basquiat lo sfrenato

 

DOWNTOWN 81 di Edo Bertoglio


Ascesa e caduta di un enfant prodige
di Maddalena Marinelli

Il diciannovenne Jean-Michel vagabonda per le strade di New York.
Passa accanto al Guggenheim Museum con aria scanzonata.
Saluta belle ragazze, spacciatori, vecchi amici, stravaganti outsiders.
Attraversa i quartieri degradati e le sfavillanti vie del benessere economico.
Ciondola con una tela sottobraccio. 
Usando uno spray lascia sul muro un pensiero. Una traccia del suo passaggio, una frase sovversiva firmata Samo.
Entra in una serie di locali alla moda per ascoltare e suonare diversi generi di musica.

Basquiat in 'Downtown 81' di Edo Bertoglio

Si tratta del film Downtown 81 di Edo Bertoglio, girato nel 1981 ma uscito solo nel 2000, in cui Basquiat interpreta se stesso.
Insieme a lui compaiono altri artisti, musicisti, amici. 
Tipici volti dell’entourage artistica newyorkese anni Ottanta.
“Tutto quello che accadde negli anni Ottanta ebbe a che fare con l’avidità e la velocità. E la realtà è che l’arte diventò metafora perfetta degli anni Ottanta.
Sai di che parlo: lusso, glam, entrate disponibili, eccessi. E così Basquiat come artista finì per rappresentare gli anni Ottanta ancor più di Schnabel”
( Mary Boone, intervistata da Phoebe Hoban)

Basquiat in 'Downtown 81' di Edo Bertoglio

Downtown 81 è un’efficace e autentica testimonianza di quell’epoca.  
Una perfetta sintesi del vivere quotidiano e delle fonti da cui Basquiat traeva l’ispirazione artistica. 
La strada, la vita, la musica, la gente, i mass media.
Molto diverso il film di Schnabel, Basquiat del 1996; un ritratto cubista, un malinconico omaggio carico d’affetto.
L’intento è di non voler analizzare o delineare didascalicamente la vita e l’opera dell’artista  ma di lasciare un' impressione, una traccia aperta.
Un poetico e metafisico ricordo, non tralasciando elementi concreti e determinanti come il difficile rapporto con il padre, la malattia della madre, il legame con Warhol, l’abuso di droghe, la discriminazione razziale,  la sua patologica volubilità.
Un cucciolo irascibile con quell’aria da candore fanciullesco, con quegli occhioni profondi che esprimevano un incasinato mondo emotivo in perenne, irrefrenabile eruzione.
Un lancinante tormento interiore, una grande fragilità, la voglia di un riconoscimento, il bisogno di affetto e stima che gli era stato negato nell’infanzia.
Tutto questo Jean-Michel lo libera in un bisogno continuo e compulsivo di disegnare su qualsiasi cosa: fogli, libri, muri, pavimenti.
La sua rabbia e il suo caos psichico esplodono per diventare composizione e ritmo tra segno, colori, parole, oggetti.

Jeffrey Wright in 'Basquiat' (1996) di Julian Schnabel

Molto istinto con un granello di metodo.
Basquiat era flusso vitale a getto continuo. Creatività artistica che non si arresta mai.
Carisma, pieno vigore, un canale aperto che raccoglieva qualsiasi trasmissione intercettata trasformandola in immagine.
Comprava centinaia di libri: monografie di qualsiasi artista (amava Leonardo), manuali di anatomia, fumetti ma anche saggistica, filosofia, narrativa.
In casa aveva la televisione sempre accesa. 
Ascoltava in continuazione e ovunque musica di ogni tipo dal jazz alla lirica.
Durante le inaugurazioni lo vedevi sempre con le cuffie del walkman  nelle orecchie, ovviamente fumando una canna.
Proveniva da una famiglia complicata ma benestante che lasciò il prima possibile a causa di un padre autoritario con tendenza a comportamenti violenti e una madre con problemi psichici.
Poi la vita per strada, da senzatetto, dormendo nei parchi in una scatola di cartone.
L’improvvisa ascesa, quella fama e ricchezza tanto desiderate da sbattere in faccia a quel padre che pur riconoscendo la sua intelligenza non pensava che il figlio potesse combinare qualcosa di buono. “Papà, un giorno diventerò molto, molto famoso”

Jeffrey Wright in 'Basquiat' (1996) di Julian Schnabel

Poi Jean  si è lasciato fagocitare, si è lasciato usare ma ha imparato anche lui ad usare.
Tutti gli giravano intorno e volevano qualcosa da lui; volevano un pezzo dell’enfant prodige. 
Tutti erano schiavi della sua fascinazione.
Tutti erano coscienti della sua lenta discesa negli inferi, impossibile da arrestare o fin troppo facile da accellerare.
Circa un decennio passato a produrre freneticamente opere che i più importanti galleristi si contendevano da Annina Nosei a Bruno Bischofberger o Emilio Mazzoli, Mary Boone e Larry Gagosian.
Gli eccessi tra l’uso continuo di eroina, cocaina, montagne di marijuana.
Ogni giorno era in giro sulla sua bicicletta alla ricerca di droghe.
Le innumerevoli amanti.
Quell’affascinante combinazione tra tenero ragazzino dal corpo atletico e uomo che trasudava un’intensa carica animalesca piaceva molto alle donne.  
Rimase travolto, solo e deluso proprio da tutto quello che voleva tanto conquistare come rivalsa sociale e personale.
Non fece in tempo a liberarsi dal suo demone.
Il piccolo principe con la sua corona magica che incantò tutti, morì di overdose a soli ventisette anni il 12 Agosto 1988.
L' anno prima era rimasto orfano del suo mentore Andy Warhol con cui realizzò diversi lavori, diciamo, a quattro mani.
Tra cui Dog (1984), Thin lips (1984-85), Poison/Eel (1984-85). 
Queste interazioni andarono avanti per circa un anno e furono abbastanza turbolente a causa delle stramberie e della vita sregolata di Basquiat.
L’enfant terrible si presentava alla Factory all’ora che voleva.
Di solito Warhol aveva già fatto il suo intervento sulla tela che nella maggior parte dei casi si trattava di uno dei suoi loghi; poi lasciava campo libero alla rude creatività del tocco di Jean, che procedeva e terminava l’opera come voleva.

David Bowie e Jeffrey Wright in 'Basquiat' di Julian Schnabel

Quindi, in realtà, i due artisti durante queste 'collaborazioni' non dipingevano mai insieme, neanche si incontravano o confrontavano.
Comunque il rapporto si basava su una grande stima reciproca.
Nel Settembre del 1985, alla Tony Shafrazi Gallery, furono esposte tutte le opere risultato da questo connubio artistico e i critici le stroncarono. Fu venduto solo un quadro.
Il fragile ego dell'enfant prodige dovette incassare un duro colpo. 
Jean non sopportava il rifiuto.

Jeffrey Wright in 'Basquiat' di Julian Schnabel

Basquiat aveva una profonda ammirazione per Warhol che considerava quasi una figura paterna e Warhol lo vedeva come un pittore puro, un grande talento.
Nell'opera di Basquiat si può godere dell’immediato impatto emotivo, della forte empatia che ci trascina nel suo mondo.
Lo straordinario modo di racchiudere la composizione in un solido equilibrio visivo.
Percorsi su tela di criptiche mappe che alludono all’odio razziale, alla politica, alla società degli anni Ottanta, incrociate alle esperienze personali dell’artista e al tentativo di esorcizzare i suoi fantasmi interiori.
Parole, simboli e immagini. Ogni elemento è riconoscibile anche se in certi casi di non facile interpretazione.
Omaggi e riferimenti ai suoi idoli musicali come Louis Armstrong, Miles Davis ma in particolar modo a Charlie Parker anch'egli genio innovatore, eroinomane e autodistruttivo, morto a soli 34 anni.
L’arte e la vita per Jean erano la stessa cosa.
Le parole cancellate perché “Così fai più attenzione a quello che dico. Vuoi vedere che c’è sotto le cancellature” (Jean-Michel Basquiat)
Un quadro poteva essere semplicemente l’istantanea di una sua giornata tipo, con scritto un numero di telefono di qualcuno che era andato a trovarlo a casa, la testa di un personaggio di un cartone animato  che in quel momento compariva in televisione, l’impronta di una scarpa di un’amante passeggera, un colore psichedelico che sgocciolava libero sul suo corpo fino a scivolare ed imprimersi sulla tela fissata sul pavimento come ‘zona magica’; un buco nero che divorava tutto in cui perdersi, ritrovarsi o lasciarsi annegare.

sabato 17 giugno 2023

‘RAPITO’, di Marco Bellocchio

 

RAPITO di Marco Bellocchio

Tirannia e libertà 
di Maddalena Marinelli

La sera del 23 Giugno 1858 viene sconvolta per sempre la vita della famiglia Mortara.
Il piccolo Edgardo viene portato via dalla sua casa bolognese, strappato dalle braccia dei suoi genitori, di credo ebraico, che impotenti devono sottostare alle disposizioni della curia locale.
La Chiesa, rappresentata dal villain Papa Pio IX, ha organizzato il rapimento di Edgardo per indottrinarlo alla fede cattolica.
Tutta colpa di una domestica che prese segretamente l’iniziativa di battezzare il bimbo in fasce, poiché ritenuto in punto di morte a sei mesi, per salvarlo dal limbo.
Sei anni dopo la donna, per denaro, aveva rivelato il fatto al grande Inquisitore del Sant’Uffizio in città.
Quindi, secondo le rigide regole del diritto canonico, Edgardo era cattolico e doveva ricevere un’educazione cattolica.

Enea Sala in 'Rapito'

Il bambino verrà portato a Roma nella Domus Catecumenorum, un seminario espressamente istituito per la conversione dall’ebraismo, dall’Islam e da altre confessioni religiose.
Inutili, nel trascorrere degli anni, i molteplici tentativi dei genitori per riavere il figlio.
Il caso Mortara diventa di portata internazionale ma nemmeno l’intervento delle alte sfere della comunità ebraica riusciranno ad opporsi all’ inplacabile “Non possumus” del Papa Re.
Edgardo cresce come cattolico, recluso in una gabbia dorata, privato dell’affetto della sua famiglia, sorvegliato a vista senza potersi rapportare con il mondo circostante.
‘Fuori’ si susseguono importanti cambiamenti storici: la caduta del potere temporale, la presa di Roma, l’Unità d’Italia.

Fabrizio Gifuni in 'Rapito' 

L’inquisitore Pier Gaetano Feletti, diretto responsabile di aver disposto il rapimento di Edgardo, viene processato ma alla fine assolto.
Quindi nemmeno col nuovo assetto politico la famiglia Mortara riesce ad ottenere giustizia e a ricongiungersi col figlio.
Nel 1870 le truppe sabaude conquistano Roma ma ormai Edgardo è un cattolico convinto  e rifiuta di abbandonare il convento dei Canonici Regolari Lateranensi a San Pietro in Vincoli, disconoscendo le sue origini ebraiche; addirittura adoperandosi nel cercare di convertire la sua famiglia.

'Rapito' di Marco Bellocchio

Con Rapito Marco Bellocchio ci riporta al Risorgimento ponendo al centro la piccola, ma emblematica, storia del caso Mortara e sullo sfondo la grande storia che avanza. Sovrappone i due piani, intreccia le sorti, innesta il livello onirico rivelatore di sensi di colpa, paure nascoste, colpe omesse.
Il rimosso riemerge con presagi violenti e sanguinari.
In un continuo moto di agitazione e di (ri)creazione artistica, Bellocchio seguita a stupirci con la sua vivida ricerca del confronto con i grandi maestri del cinema italiano, con la storia del nostro Paese, con noi stessi naufraghi nell’era contemporanea.
Un cineasta che muta sempre la sua pelle con consapevolezza del presente, con rielaborazione del passato e con la voglia di rimettersi in gioco nel futuro.

'Il rapimento di Edgardo Mortara' di M.D. Oppenheim (1862)

In Rapito l’impianto classico è austero e solenne nella messa in scena, nella musica, nella fotografia, nei personaggi.
Però Bellocchio ci inganna.
Costruisce tutto all’interno di un solido strato di pathos che investe con prepotenza lo spettatore come un’aria verdiana.
Si vela tutto di melodramma.
La musica esplode enfatizzando gli eventi più drammatici.
Le azioni dei personaggi si caricano di teatralità.
Le espressioni sui volti, nei primissimi piani, sono esasperate.
Ma sappiamo bene che non c’è solo questo.
Quando le maschere cadono, cosa troviamo sotto questa  patina da frantumare, da prendere a pugni?
Ancora una volta l’ossessione per il concetto di rapimento che attraversa il cinema di Bellocchio come una lama che squarcia l’anima.
A questa lama si contrappone il desiderio di libertà, altro tema sviscerato più volte dal regista piacentino.
Un cinema che affronta il titanico duello, nella storia e nel privato, tra tirannia e libertà in ogni possibile declinazione e alienazione. 

Filippo Timi in 'Rapito'

In primis, come perpetuo monito etico e politico, il rapimento di Aldo Moro vivisezionato ad oltranza, metaforizzato, esorcizzato in Buongiorno Notte ed Esterno Notte ed echeggiante ovunque.
In Vincere  l’opposizione viene eliminata con la violenza sistematica: il sequestro in manicomio di Ida Dalser e la sparizione di Benito Albino Mussolini.
In Bella addormentata si gira intorno, con storie di personaggi direttamente o indirettamente collegati , alla reclusione di Eluana Englaro in stato vegetativo; un obbligo imposto per 17 anni dalla giustizia italiana (contro il volere della famiglia Englaro) e preteso con veemenza da giornalisti, partiti politici ed associazioni di centrodestra.
I diversi concetti di ‘assedio’ nella vita di Tommaso Buscetta, prima nella condizione di mafioso e poi nel ruolo di collaboratore di giustizia in Il traditore.
Sacrificare, distruggere, strumentalizzare la vita di un individuo in nome di un’ideologia politica, religiosa, mafiosa.
L’oppressione dell’istituzione (la famiglia, lo Stato, la Chiesa..) contro la spinta eversiva del singolo che tenta di fuggire da una tirannia.
Quella via di fuga, che spesso nel cinema di Bellocchio, sfocerà in nevrosi.

'Rapito' di Marco Bellocchio

Questa volta, in Rapito, la vittima sacrificale è un bambino a cui verrà imposta una volontà ‘superiore’, come ultima resistenza, per continuare ad affermare la supremazia di uno potere temporale ormai giunto alla fine.
Per forzare alle conversioni poiché, ai famigliari di altre confessioni a cui erano stati sottratti i figli, veniva detto che l’unico modo per poter riavere i loro bambini era quello di diventare cattolici e molti cedettero a tale ricatto.
L’ebreo Edgardo Mortara fu cristianizzato e allevato dallo Stato Pontificio come un vero e proprio ‘soldato di Cristo’ addestrato ad un preciso compito: una volta diventato sacerdote, venne inviato in città come Monaco di Baviera, Magonza, Breslavia  e addirittura negli Stati Uniti per convertire gli ebrei.

Leonardo Maltese in 'Rapito'

“Il rapimento di Edgardo Mortara è anche un delitto contro una famiglia tranquilla, mediamente benestante, rispettosa dell’autorità (che era ancora in Bologna, l’autorità del Papa-Re), in anni in cui si respirava in Europa un’aria di libertà, dove si stavano affermando ovunque i principi liberali, tutto stava cambiando e proprio per questo il rapimento del piccolo rappresenta la volontà disperata, e perciò violentissima, di un’autorità ormai agonizzante di resistere al suo crollo, anzi di contrattaccare. I regimi totalitari hanno spesso dei contraccolpi che per un momento li illudono di vincere (il breve risveglio che precede la morte).” (Marco Bellocchio)

Barbara Ronchi in 'Rapito'

Il gioco perverso del potere.
Il potere cambia, ma per chi cambiano effettivamente le cose?
Nel 1793 si taglia la testa del monarca francese ma nello stesso modo nel 1794 cadrà quella del rivoluzionario Robespierre.
Il potere si veste di molti colori e nomi differenti ma la sua anima rimane nera seguendo sempre i propri ineluttabili dettami.
I disincanti di chi ha creduto nel cambiamento, si è sacrificato per la rivoluzione e qui Rapito si connette a Noi credevamo di Mario Martone un’altra opera filmica molto amara  che analizza egregiamente luci ed ombre di un  Risorgimento vissuto dal popolo, sulla pelle di una generazione di giovani che non diventeranno mai uomini o che da uomini si renderanno conto che le porte del primo Parlamento si chiuderanno in faccia al popolo, mentre dentro la solita manciata di potenti continuerà a fare i propri interessi.

Paolo Pierobon e Leonardo Maltese in 'Rapito'

La famiglia Mortara si illude che con un cambio di potere potrà avere giustizia ma il loro caso fu considerato dai moti liberali solo come 'strumento' per accattivarsi l’opinione pubblica, per denigrare in Italia e all’estero lo Stato Pontificio.
Edgardo rimarrà prigioniero del Papa anche quando Pio IX decadrà.
Si mostrerà sempre come un bambino, e in seguito un novizio, molto devoto alla chiesa cattolica anche se Bellocchio, in alcuni momenti, rivela un Edgardo ‘spezzato’con improvvisi impeti ribelli, come se ci fosse in lui uno sdoppiamento.
Le conseguenze di un condizionamento subito nell’età evolutiva.

Fausto Russo Alesi in 'Rapito'

Il risultato di aver fatto crescere un bambino come un orfano, quando non era tale; privandolo dei suoi amorevoli riferimenti familiari, annientando la sua identità con una conversione forzata.
Il tenero sogno dell’Edgardo bambino, di liberare il Cristo dalla sofferenza della croce, rimarrà la sua unica ‘fuga’ dalla Domus Catecumenorum; come allo stesso modo, solo attraverso l’onirico, avevamo assistito in Buongiorno Notte all’evasione di Aldo Moro dai suoi carcerieri.
Un epifanico conforto.
La visione di quel finale diverso che solo al cinema ci è concesso vedere.