Ascesa e caduta di un enfant prodige
di Maddalena Marinelli
Il
diciannovenne Jean-Michel vagabonda per le strade di New York.
Passa
accanto al Guggenheim Museum con aria scanzonata.
Saluta
belle ragazze, spacciatori, vecchi amici, stravaganti outsiders.
Attraversa
i quartieri degradati e le sfavillanti vie del benessere economico.
Ciondola
con una tela sottobraccio.
Usando uno spray lascia sul muro un pensiero. Una
traccia del suo passaggio, una frase sovversiva firmata Samo.
Entra
in una serie di locali alla moda per ascoltare e suonare diversi generi di
musica.
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Basquiat in 'Downtown 81' di Edo Bertoglio |
Si
tratta del film Downtown 81 di Edo
Bertoglio, girato nel 1981 ma uscito solo nel 2000, in cui
Basquiat interpreta se stesso.
Insieme
a lui compaiono altri artisti, musicisti, amici. Tipici volti dell’entourage
artistica newyorkese anni Ottanta.
“Tutto quello che
accadde negli anni Ottanta ebbe a che fare con l’avidità e la velocità. E la
realtà è che l’arte diventò metafora perfetta degli anni Ottanta.
Sai di che parlo:
lusso, glam, entrate disponibili, eccessi. E così Basquiat come artista finì
per rappresentare gli anni Ottanta ancor più di Schnabel”
(
Mary Boone, intervistata da Phoebe Hoban)
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Basquiat in 'Downtown 81' di Edo Bertoglio |
Downtown 81
è un’efficace e autentica testimonianza di quell’epoca.
Una
perfetta sintesi del vivere quotidiano e delle fonti da cui Basquiat traeva
l’ispirazione artistica. La strada, la vita, la musica, la gente, i mass media.
Molto
diverso il film di Schnabel, Basquiat
del 1996; un ritratto cubista, un malinconico omaggio carico d’affetto.
L’intento
è di non voler analizzare o delineare didascalicamente la vita e l’opera dell’artista ma di lasciare un' impressione, una traccia aperta.
Un
poetico e metafisico ricordo, non tralasciando elementi concreti e determinanti come il difficile
rapporto con il padre, la malattia della madre, il legame con Warhol, l’abuso di droghe, la discriminazione razziale, la sua patologica
volubilità.
Un
cucciolo irascibile con quell’aria da candore fanciullesco, con quegli occhioni
profondi che esprimevano un incasinato mondo emotivo in perenne, irrefrenabile
eruzione.
Un
lancinante tormento interiore, una grande fragilità, la voglia di un riconoscimento,
il bisogno di affetto e stima che gli era stato negato nell’infanzia.
Tutto
questo Jean-Michel lo libera in un bisogno continuo e compulsivo di disegnare
su qualsiasi cosa: fogli, libri, muri, pavimenti.
La
sua rabbia e il suo caos psichico esplodono per diventare composizione e ritmo
tra segno, colori, parole, oggetti.
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Jeffrey Wright in 'Basquiat' (1996) di Julian Schnabel |
Molto
istinto con un granello di metodo.
Basquiat
era flusso vitale a getto continuo. Creatività artistica che non si arresta
mai.
Carisma,
pieno vigore, un canale aperto che raccoglieva qualsiasi trasmissione
intercettata trasformandola in immagine.
Comprava
centinaia di libri: monografie di qualsiasi artista (amava Leonardo), manuali
di anatomia, fumetti ma anche saggistica, filosofia, narrativa.
In
casa aveva la televisione sempre accesa. Ascoltava in continuazione e ovunque
musica di ogni tipo dal jazz alla lirica.
Durante le inaugurazioni lo vedevi sempre con le cuffie del walkman nelle orecchie, ovviamente fumando una canna.
Proveniva
da una famiglia complicata ma benestante che lasciò il prima possibile a causa
di un padre autoritario con tendenza a comportamenti violenti e una madre con
problemi psichici.
Poi
la vita per strada, da senzatetto, dormendo nei parchi in una scatola di
cartone.
L’improvvisa
ascesa, quella fama e ricchezza tanto desiderate da sbattere in faccia a quel padre che pur riconoscendo la sua intelligenza
non pensava che il figlio potesse combinare qualcosa di buono. “Papà, un giorno diventerò molto, molto
famoso”
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Jeffrey Wright in 'Basquiat' (1996) di Julian Schnabel |
Poi
Jean si è lasciato fagocitare, si è
lasciato usare ma ha imparato anche lui ad usare.
Tutti
gli giravano intorno e volevano qualcosa da lui; volevano un pezzo dell’enfant
prodige. Tutti erano schiavi della sua fascinazione.
Tutti
erano coscienti della sua lenta discesa negli inferi, impossibile da arrestare
o fin troppo facile da accellerare.
Circa
un decennio passato a produrre freneticamente opere che i più importanti
galleristi si contendevano da Annina Nosei a Bruno Bischofberger o Emilio
Mazzoli, Mary Boone e Larry Gagosian.
Gli
eccessi tra l’uso continuo di eroina, cocaina, montagne di marijuana.
Ogni
giorno era in giro sulla sua bicicletta alla ricerca di droghe.
Le
innumerevoli amanti.
Quell’affascinante
combinazione tra tenero ragazzino dal corpo atletico e uomo che trasudava un’intensa carica animalesca piaceva
molto alle donne.
Rimase
travolto, solo e deluso proprio da tutto quello che voleva tanto conquistare
come rivalsa sociale e personale.
Non
fece in tempo a liberarsi dal suo demone.
Il
piccolo principe con la sua corona magica che incantò tutti, morì di overdose a
soli ventisette anni il 12 Agosto 1988.
L' anno prima era rimasto orfano del suo mentore Andy Warhol con cui realizzò diversi lavori, diciamo, a quattro mani.
Tra cui Dog (1984), Thin lips (1984-85), Poison/Eel (1984-85).
Queste interazioni andarono avanti per circa un anno e furono
abbastanza turbolente a causa delle stramberie e della vita sregolata di
Basquiat.
L’enfant
terrible si presentava alla Factory all’ora che voleva.
Di
solito Warhol aveva già fatto il suo intervento sulla tela che nella maggior
parte dei casi si trattava di uno dei suoi loghi; poi lasciava campo libero
alla rude creatività del tocco di Jean, che procedeva e terminava l’opera come
voleva.
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David Bowie e Jeffrey Wright in 'Basquiat' di Julian Schnabel |
Quindi,
in realtà, i due artisti durante queste 'collaborazioni' non dipingevano mai
insieme, neanche si incontravano o confrontavano.
Comunque
il rapporto si basava su una grande stima reciproca.Nel Settembre del 1985, alla Tony Shafrazi Gallery, furono esposte tutte le opere risultato da questo connubio artistico e i critici le stroncarono. Fu venduto solo un quadro.
Il fragile ego dell'enfant prodige dovette incassare un duro colpo.
Jean non sopportava il rifiuto.
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Jeffrey Wright in 'Basquiat' di Julian Schnabel |
Basquiat
aveva una profonda ammirazione per Warhol che considerava quasi una figura
paterna e Warhol lo vedeva come un pittore puro, un grande talento.
Nell'opera di Basquiat si può godere dell’immediato
impatto emotivo, della forte empatia che ci trascina nel suo mondo.
Lo
straordinario modo di racchiudere la composizione in un solido equilibrio
visivo.
Percorsi
su tela di criptiche mappe che alludono all’odio razziale, alla politica, alla
società degli anni Ottanta, incrociate alle esperienze personali dell’artista e
al tentativo di esorcizzare i suoi fantasmi interiori.
Parole,
simboli e immagini. Ogni elemento è riconoscibile anche se in certi casi di non
facile interpretazione.
Omaggi
e riferimenti ai suoi idoli musicali come Louis Armstrong, Miles Davis ma in
particolar modo a Charlie Parker anch'egli genio innovatore, eroinomane e autodistruttivo, morto a soli 34 anni.
L’arte
e la vita per Jean erano la stessa cosa.
Le parole cancellate perché “Così fai più attenzione a quello che dico. Vuoi vedere che c’è sotto le cancellature” (Jean-Michel Basquiat)
Un
quadro poteva essere semplicemente l’istantanea di una sua giornata tipo, con
scritto un numero di telefono di qualcuno che era andato a trovarlo a casa, la
testa di un personaggio di un cartone animato che in quel momento compariva in televisione, l’impronta
di una scarpa di un’amante passeggera, un colore psichedelico che sgocciolava
libero sul suo corpo fino a scivolare ed imprimersi sulla tela fissata sul
pavimento come ‘zona magica’; un buco nero che divorava tutto in cui perdersi,
ritrovarsi o lasciarsi annegare.