martedì 21 agosto 2012

"Sorelle Mai", di Marco Bellocchio



Un perfetto folle dialogo tra realtà e finzione
di Maddalena Marinelli



Nel film I pugni in tasca del 1965 l'istituzione familiare veniva distrutta dai suoi stessi componenti come atto simbolico di ribellione verso le convenzioni morali e sociali borghesi. Nel 2010 in Sorelle Mai la famiglia si ricompone in un'atmosfera confortante di provincia e diventa rifugio, salvezza dalle insidie del mondo, ossario della memoria, rimanendo  pur sempre castratrice di sogni.

Secondo un’antica credenza pagana ogni luogo è protetto da un nume tutelare.
Uno spirito inquieto fautore di quell’aura metafisica dove convivono, in perenne stato di sospensione, tutti gli avvenimenti passati legati ad un luogo.
Bellocchio è il predatore del genius loci. Lo insegue da sempre nel luogo d'infanzia, nel luogo della storia, nel corpo dell'attore.  Lo aspetta dietro la macchina da presa affinchè possa esercitare i suoi poteri sull'intero film.
La sua operazione inizia di solito  nel rifarsi ad un testo per poi elaborare un percorso assolutamente contro il testo sovrapponendo una fitta trama di suggestioni, di indizi metatestuali, d' innesti introspettivi spesso autobiografici sempre con una grande nitidezza della visione concettuale. Lascia allo spettatore diverse chiavi di lettura da ricercare nella storia collettiva o individuale e nelle profondità dell'inconscio con risultati di emozione, riflessione e a volte incomprensione.
Ma può esserci davvero una “zona emotiva”, condensatrice di memoria che stagna all’interno di uno spazio fisico?
Un altrove perturbante assopito nella pietra e nella polvere, un sottile sentore che nell’attimo stesso in cui il nostro occhio l’afferra ci sfugge ritraendosi come un’ombra cacciata dalla luce, come l'immagine delle due zie, le sorelle Mai, che si dissolve nell'attraversare il corridoio della casa di famiglia. Spariscono per ricomparire in altro spazio e in altro tempo o si trasformano nello spirito stesso del luogo, condannate a non potersene allontanare 'mai'; nel film sono le figure che incarneranno il flusso di coscienza.
Ci sono le zie e l'amico di famiglia "i miti" che sono legati al passato, trattengono a sè e poi i "rapaci" i due nipoti che negli anni non fanno altro che arrivare e partire. Giorgio e Sara che vivono nel presente tra sogni, inquietudini e frustazioni in eterno conflitto con il luogo di nascita che si vuole abbandonare e dove però si ritorna sempre nell'impossibilità di annullare questo legame con la casa infernale/ospitale.
Elena, la bambina, è la vita in crescita, il futuro, il personaggio più vicino allo stato dello spettatore. Attraversa gli avvenimenti e il tempo nella sua impotenza nel decidere e nell'agire. Lei segue, è sempre presente e infine forse arriverà un tempo in cui giudicherà.
Dove tutto si trasforma nell'arco di quasi dieci anni, immutabile rimane solo la veduta dell'antico fiume Trebbia che infine perde la sua limpidezza; diventa maligno e spettrale facendo sparire Gianni Schicchi vestito in frac.Un'altra smaterializzazione, un rito del passaggio.

Sorelle Mai nasce all'interno dei corsi di Fare Cinema a Bobbio, condotti da Marco Bellocchio nei periodi estivi tra il 1999 e il 2008.
"Un film per caso che non poteva essere più condizionato e nello stesso tempo più libero" (M.Bellocchio)
L'idea è nel filmare il reale e unirlo con la finzione. Far diventare personaggi per caso i componenti della famiglia Bellocchio e farli interagire con attori veri ricomponendo una vicenda e una coesione emotiva. Assolutamente un magico ibrido sodalizio.
C'è creazione ma molto è anche fatto di distruzione e queste regioni di rovina lo spettatore non può vederle perchè la loro funzione è proprio quella di non essere viste e di agire invisibilmente.
Unire atmosfere di vita quotidiana, zaffate di memoria, messa in scena con l'appoggio spirituale di Cechov.
Ci sono i frammenti del suo primo film I pugni in tasca ma l'ombra del Gabbiano compare nella locandina di Sorelle Mai come lo spettro di Nina e Irina coesistono in Sara e quello turbato e autodistruttivo di Kostja si proietta in Giorgio.
Quella rabbia giovane come bisogno profondo di modificare la realtà viene trasformata in energia più pacifica ma sempre intuitivamente critica sul malessere dell'anima delusa dal mondo reale.
Quest'opera ci fa riflettere sulla grande necessità di sperimentazione in un momento in cui il cinema italiano sembra perseverare, con la benedizione di tutti, sulla prolificazione della commedia d'evasione che lascerà solo dei bei buchi vuoti.
Marco Bellocchio inquietamente rimescola ancora una volta le carte del suo cinema, dopo Vincere con Sorelle Mai ritorna ad una riflessione intima, una necessità di resettare per ricominciare forse verso qualcos'altro, intenzione già intuita e poi lasciata sospesa ne Il regista di matrimoni in cui metteva in crisi la condizione professionale del cineasta.
Nel suo ultimo film la riflessione va oltre diventando più viscerale, ritorna ancora una volta alle origini cercando nuove modalità d'espressione.
Così il suo cinema ogni volta riesce a stupirci sfuggendo sempre ad ogni definizione o ambendo a concentrarle tutte.
Muta sempre la sua pelle con consapevolezza del presente, con rielaborazione del passato e con la voglia di rimettersi sempre in gioco nel futuro. Gli artisti producono significato soprattutto quando tentano di annullare il significato dato. 

giovedì 2 agosto 2012

"Life lessons", di Martin Scorsese


Quella benedetta insana passione che unisce furor creativo e sentimentale.
di Maddalena Marinelli

Una New York fortemente bohémien che richiama gli anni dei fervori artistici di Pollock e della beat generation. Il primo episodio di New York Stories, il film dove Scorsese insieme a Francis Ford Coppola e Woody Allen rende omaggio alla Grande Mela e ai suoi drammi del cuore. Ad uscire vincitore dal confronto, sembra proprio Scorsese capace in poco più di mezz'ora di regalarci un concentrato di stile, tecnica ed intensità emotiva.
"Come tutte quelle donne che vissero per qualche tempo accanto ad un uomo famoso sarò ricordata soltanto perché fui amata da Dostoevskij. Io non gli perdonai di avermi usata solo per placare la sua disperazione" così scrive nel suo diario Apollinarija Suslova giovane amante del grande romanziere russo. Polina si sentiva «usata» come strumento di piacere dallo scrittore, che per lei, come per altri della sua generazione, era allora un idolo. La donna in un breve soggiorno a Parigi s'innamorò di un bellimbusto spagnolo che ben presto si stancò di quel legame, la Suslova così ritornò da Dostoevskij ma infine rifiutò la sua proposta di matrimonio lasciandolo definitivamente. Scorsese in Life Lessons riprende esattamente questa vicenda proiettandola nell'ambiente artistico newyorkese degli anni Ottanta. Una turbolenta storia d'amore in cui le parti di vittima e carnefice si rovesciano continuamente.
La macchina da presa è dentro Lionel Dobie, percepiamo tutta l'oppressione del suo stato d'animo, la sofferenza, l'insicurezza, il palpito del suo cuore esplodere assordante sul tormentone sonoro di A whiter shade of pale dei Procol Harum. Attraverso la soggettiva lo viviamo mentre pennellata su pennellata crea le sue opere e controlla ossessivamente Paulette nell'estremo tentativo di legarla a sé attraverso il continuo contatto visivo nella crescente paura che, perdendola di vista, svanirà per sempre anche la sua preziosa ispirazione creativa. L'inquietudine dei personaggi è affidata puramente all'immagine, attraverso una partitura tecnica su forti contrasti tra rallenty e improvvise zoomate.

Quando le fisime dell'artista aumentano il cineocchio-feticista diventa mirino, perversando sui details del corpo di Paulette.
Lionel è consapevole che non potrà riuscire ancora per molto a trattenere la ragazza e su questa paura Scorsese riesce a far scivolare lo spettatore in una crescente suspense costruita a regola d'arte, premonitrice di una possibile conclusione tragica ma è solo un abile finta, niente finale alla Taxi Driver, preferisce spegnere tutto nella catarsi artistica del fastoso vernissage. Una chiusura circolare e tutto ricomincia con una nuova protagonista femminile; nuova immagine da frazionare per nutrire il voyeurismo del cineocchio e quello di noi spettatori nascosti nel buio.
Una vigorosa tragicommedia affidata ad una valente coppia di attori: un Nick Nolte scapigliato, tragico, fragile, buffo e una Rosanne Arquette seducente, insicura, sfuggente.
Anche senza gangsters, ambiente italo-americano ed estetica della violenza, Scorsese riesce a dare una grande lezione di regia. Con fermezza trascina emotivamente lo spettatore nella vicenda, dimostrando sempre di essere un acuto osservatore dei malesseri sociali. Sofferma allungo l'inquadratura sull'espressività, la bellezza e la fisicità del gesto pittorico come se si trattasse del terzo protagonista del film, enorme specchio dell'anima in cui l'artista si osserva con smarrimento.
Life Lessons decanta la passione, riunendo perfettamente le due anime del regista. Preannuncia quel neoviscontiano virtuosismo formale e tecnico che perseguirà con sempre più incalzante rigore in Goodfellas, Cape Fear, Casinò fino a Shutter Island e conserva quella carica irrequieta, passionale, imprevedibile dei suoi primi successi Who's That Knocking at My Door, Mean Streets, Fuori orario.
Stranissimi influssi in questo film arrivano anche dalla vicinanza del collega Woody Allen che sembra aver prestato a Scorsese uno dei suoi tipici artisti-scrittori newjorkesi in avanzato stato di crisi sentimentale-creativa, impegnati in nevrotici conflitti col genere femminile.