mercoledì 9 ottobre 2013

La fine del mondo: Pre-visioni straordinarie




Un apocalittico itinerario umano, estetico e cinematografico
di Maddalena Marinelli

“Non vediamo le cose per come sono, ma per come siamo”     (Anais Nin)

Scenicamente appropiato sarebbe collocare lo svolgersi della fine al crepuscolo o alle prime luci dell’alba, quando il sonno e i sogni si muovono ancora nell’aria, quando l’abituale percezione della realtà rallenta e la nostra mente lascia scivolare dentro quelle piccole variazioni che inizialmente sembrano leggerissime ma che possono mutare con decisione il nostro usuale punto di vista gettandoci in abissi irreversibili. Quindi è in queste trame che potrebbe verificarsi, in un lieve  cambio di luce, l’inizio di qualche forma d’oscurità che rovescia il nostro mondo nel caos.  Se ci fosse un risveglio chissà in quale mutazione della realtà i nostri occhi si riaprirebbero.
Poco c’è rimasto da immaginarsi. Il cinema ha risucchiato ogni possibile fine del mondo e continuerà a proporre altre migliaia di (pre)visioni apocalittiche fino al vero, autentico ‘giorno del giudizio’ che probabilmente confonderemo con un film in 3D.
Ampia è la gamma tonale della catastrofe: rugginose distese desertiche, amalgama grigia che include cielo e terra, fangose e putrescenti lagune, cumuli di ferraglia, bianco abbacinante, profondi imbuti neri, distese d’acqua che sommergono le capitali del mondo.
Cercasi immagini del disastro? Potremmo banalmente partire dal genere cinematografico che per eccellenza se ne occupa più di tutti gli altri ma sarà poi inevitabile spaziare altrove perché la fine del mondo ha  un’ identità proteiforme.
In effetti da un film di fantascienza è difficile aspettarsi positività per l’avvenire, un domani migliore, di solito preannunciano l’avverarsi dei peggiori incubi arrivando a concepire immagini acheropite.
Ci siamo giocati anche il buon Spielberg che ha tradito il romanticismo di E.T. e Incontri Ravvicinati per calarsi in scenari futuri in cui l’onnipotenza umana trascina il mondo alle estreme conseguenze e nel caso non bastasse, ci sono sempre gli alieni ostili a farci fuori con le tecnologie più sofisticate e divinamente sadiche.

"Gli uccelli" (1963) di Alfred Hitchcock

Senza scomodare le civiltà intergalattiche ci pensa la natura con tutte le sue sacrosante ragioni a inviarci i suoi sicari dal cielo, come in Hitchcock dove gli uccelli si coalizzano nello sterminio della razza umana.
La violenza priva di senso e limiti, il terrore atomico, biologico e mutageno.
Una delle immagini più evocative della (auto)distruzione del Pianeta è quella della war room nel film Prova di errore di Sidney Lumet in cui i potenti della Terra osservano impotenti il propagarsi del disastro nucleare.
I nostri anni sono segnati da paure più prosaiche ma altrettanto devastanti come la perdita del lavoro, della casa, dei diritti umani, dei sentimenti, della giustizia, della libertà ma anche questo è la fine del mondo.
Le fantasie orwelliane si stanno minacciosamente avverando? Gli scenari di Fahrenheit 451 o de L’uomo che fuggì dal futuro, dove si vive in una società in cui sono  banditi i sentimenti e l’individualità, non sono così lontani.
Fa molta più paura il male che non si vede, rispetto alla calamità  che dovrebbe cadere dal cielo, quello subdolo che si annida nell’essere umano.

"Eraserhead - La mente che cancella" (1977) di David Lynch

In Eraserhead nel famoso volto/icona di Henry Spencer, sullo sfondo di una misteriosa nuvola di polvere che divora l’aria, si riflette un orrore indicibile e invisibile che rimane occultato agli spettatori. I suoi occhi cosa stanno fissando? Forse l’ultima visione del mondo prima della sua cancellazione proiettata nell’imcomprensibile ma perturbata espressione di Henry che già si trova, senza saperlo,  in un desolante e onirico mondo post-apocalittico.
Se il quadro d’insieme si dimostra decisamente allarmante un utile esercizio può essere mettere a nudo l’immagine dei pensieri e delle paure umane attraverso la prefigurazione filmica.
Iniezioni oculari per sperimentare, simulare, esorcizzare l’eventuale fine del mondo e la situazione post-atomica da homo homini lupus.
I Maya, Nostradamus, San Giovanni, sono tutti d’accordo sull’arrivo di questa distruzione/ricreazione planetaria. Ogni tanto nella storia sembra avvicinarsi il momento di questo grande flagello tanto per tenerci in allarme, farci riflettere sul senso della vita e naturalmente lucrarci sopra il più possibile.
Paranoie, fobie, visioni, bunker con scorte di minestre Campell, profezie che aumentano, le sette che cominciano a programmare i suicidi di massa.
Siamo sicuri che la fine del mondo deve ancora arrivare? O ci siamo già dentro e ci consuma lentamente? La bomba non potrà esplodere perché è già esplosa, anzi esplode ogni giorno. L’apocalisse  avviene in ogni minuto ed è vicina e possibile. Siamo noi i piccoli pianeti che si stanno spegnendo con finte estati ed inverni sempre più lunghi  e come nell’ Inquilino del terzo piano fuori non esiste nessun complotto.  La vera persecuzione, l’ordigno dell’apocalisse è nella nostra mente.
Il seme della follia è letale, contagioso e senza limiti creativi, la materia filmica si è molto nutrita di psicosi diventando spazio privilegiato di paure e fantasmi collettivi.  In Take Shelter un tranquillo operaio comincia ad avere terribili sogni su catastrofi che si abbatteranno sul Pianeta. Sono premonizioni o solo i segnali di un disturbo mentale?
La fantasia dell’uomo ha generato i tanti “The Day After” prevedendo civiltà al limite, lande desolate, regressioni all’età della pietra. L’azzeramento di tutto con i superstiti che si rincorrono per divorarsi a vicenda.

"Il paese incantato" (1968) di Alejandro Jodorowsky 

Nel film Il paese incantato un uomo trascina sopra un carretto la sua donna paralitica. Insieme partono alla ricerca della leggendaria città di Tar, luogo estremo dove rifugiarsi da una realtà all’ultimo stadio del disfacimento morale. Lo scenario si presenta apocalittico; un mondo spazzato via in cui i sopravvissuti vivono tra le macerie senza più riferimenti e regole. Fando e Lis rappresentano la coppia archetipica. Lottano tra istinto di preservazione e istinto di distruzione del loro legame.
L’opera d’esordio del poeta/alchimista Jodorowsky. Cave deserte, cimiteri profanati da scenette che prendono in giro la morte, donne anziane che seducono uomini giovani, allegre bande di travestiti, una donna che rappresenta la figura di un pontefice, antropofagia, vampirismo e molto altro.
Forse Lis è solo un’invenzione di Fando, la rappresentazione della purezza indifesa che viene sempre minacciata o corrotta. Il cammino verso Tar si rivelerà una discesa nell’abisso della psiche da cui riemergono ricordi, dolori, traumi mai affrontati incarnati da una serie di emblematici personaggi. Un girone dantesco, un labirinto infernale dove i due protagonisti si ritrovano sempre al punto di partenza. Quando Lis distrugge il tamburo che rappresenta l’ultimo prezioso oggetto dell’infanzia, Fando la uccide facendola diventare una santa divorata dai suoi fedeli che attraverso l’atto del cannibalismo cercano di conquistare un pezzetto della sua purezza.

"The road" (2009) di John Hillcoat

Un altro sfondo post-apocalittico, un altro viaggio della speranza, un’altra coppia: un padre e suo figlio. In The Road il mondo è diventato un luogo sconfinatamente selvaggio dove gli uomini si dividono tra prede e predatori. Un inferno del nulla, in cui il male è diventato la scelta per la sopravvivenza.Vedere un bambino buttato in uno scenario simile fa paura. La sua (r)esistenza sembra impossibile. Il padre lo definisce ‘la mia garanzia’, in un mondo in cui ogni giorno è più grigio del precedente, il bambino diventa quel fuoco da non far spegnere per nessuna ragione. Anche in questo caso la purezza e l’innocenza contro le disfattezze dell’umanità.
La morte è un pensiero incessante sia come pericolo tangibile ma anche come liberazione, alternativa al teatro delle crudeltà inflitto dai predatori. Il bambino nasce nella fine del mondo, in un contesto senza più nomi, riferimenti temporali e spaziali. La sua vita è racchiusa tra la morte della madre che non vede e quella del padre a cui assiste integralmente.

"Il tempo dei lupi" (2003) di Michael Haneke

Il tempo dei lupi di Michael Haneke inizia con l’uccisione del capofamiglia lasciando allo sbando una donna e i suoi due figli in mezzo ad un inprecisato e spietato paesaggio nebbioso spogliato da chissà quale cataclisma. Ancora un bambino come agnello tra i lupi che sul finale decide di compiere una specie di sacrificio saltando nel fuoco per purificare la Terra dai suoi mali.
Una moltitudine di proposte, di possibili orrori futuri. Chissà tra i tanti, quale si avventerà su di noi. Oppure rimarranno solo grandi fantasie, sfoghi liberatori del nostro inconscio.
Il cinema può curare il male del mondo? Può elaborare gli sbagli del passato? Può illuminarci sulla via futura? Oppure è solo un attraversamento senza giusta destinazione. Il nostro matrix in cui alienarci a piacimento, dove i sogni e gli incubi si consumano ripetendosi in un ciclo perpetuo.

(Saggio di Maddalena Marinelli tratto dal catalogo della rassegna Finimondi )
                                                                 

















1 commento:

  1. Complimenti per la scelta dei film, che offre un quadro multisfaccettato della tematica, e per la lucidità della loro lettura ed interpretazione.
    A completare il tutto, l'uso di un linguaggio che sa toccare, come avvertimento e monito, le corde più intime dell'animo umano.

    RispondiElimina