Un apocalittico itinerario umano, estetico e cinematografico
di Maddalena Marinelli
“Non vediamo le cose per come sono,
ma per come siamo” (Anais
Nin)
Scenicamente
appropiato sarebbe collocare lo svolgersi della fine al crepuscolo o alle prime luci dell’alba, quando il sonno e i
sogni si muovono ancora nell’aria, quando l’abituale percezione della realtà
rallenta e la nostra mente lascia scivolare dentro quelle piccole variazioni
che inizialmente sembrano leggerissime ma che possono mutare con decisione il
nostro usuale punto di vista gettandoci in abissi irreversibili. Quindi è in
queste trame che potrebbe verificarsi, in un lieve cambio di luce, l’inizio di qualche forma
d’oscurità che rovescia il nostro mondo nel caos. Se ci fosse un risveglio chissà in quale
mutazione della realtà i nostri occhi si riaprirebbero.
Poco
c’è rimasto da immaginarsi. Il cinema ha risucchiato ogni possibile fine del
mondo e continuerà a proporre altre migliaia di (pre)visioni apocalittiche fino
al vero, autentico ‘giorno del giudizio’ che probabilmente confonderemo con un
film in 3D.
Ampia
è la gamma tonale della catastrofe: rugginose distese desertiche, amalgama
grigia che include cielo e terra, fangose e putrescenti lagune, cumuli di
ferraglia, bianco abbacinante, profondi imbuti neri, distese d’acqua che
sommergono le capitali del mondo.
Cercasi
immagini del disastro? Potremmo banalmente partire dal genere cinematografico
che per eccellenza se ne occupa più di tutti gli altri ma sarà poi inevitabile
spaziare altrove perché la fine del mondo
ha un’ identità proteiforme.
In
effetti da un film di fantascienza è difficile aspettarsi positività per
l’avvenire, un domani migliore, di solito preannunciano l’avverarsi dei peggiori
incubi arrivando a concepire immagini acheropite.
Ci
siamo giocati anche il buon Spielberg che ha tradito il romanticismo di E.T. e Incontri Ravvicinati per calarsi in scenari futuri in cui
l’onnipotenza umana trascina il mondo alle estreme conseguenze e nel caso non
bastasse, ci sono sempre gli alieni ostili a farci fuori con le tecnologie più
sofisticate e divinamente sadiche.
Senza
scomodare le civiltà intergalattiche ci pensa la natura con tutte le sue
sacrosante ragioni a inviarci i suoi sicari dal cielo, come in Hitchcock dove
gli uccelli si coalizzano nello sterminio della razza umana.
La
violenza priva di senso e limiti, il terrore atomico, biologico e mutageno.
Una
delle immagini più evocative della (auto)distruzione del Pianeta è quella della
war room nel film Prova di errore di
Sidney Lumet in cui i potenti della Terra osservano impotenti il propagarsi del
disastro nucleare.
I
nostri anni sono segnati da paure più prosaiche ma altrettanto devastanti come
la perdita del lavoro, della casa, dei diritti umani, dei sentimenti, della
giustizia, della libertà ma anche questo è la fine del mondo.
Le
fantasie orwelliane si stanno minacciosamente avverando? Gli scenari di Fahrenheit 451 o de L’uomo che fuggì dal futuro, dove si vive in una società in cui
sono banditi i sentimenti e
l’individualità, non sono così lontani.
Fa
molta più paura il male che non si vede, rispetto alla calamità che dovrebbe cadere dal cielo, quello subdolo
che si annida nell’essere umano.
"Eraserhead - La mente che cancella" (1977) di David Lynch |
In
Eraserhead nel famoso volto/icona di
Henry Spencer, sullo sfondo di una misteriosa nuvola di polvere che divora l’aria,
si riflette un orrore indicibile e invisibile che rimane occultato agli
spettatori. I suoi occhi cosa stanno fissando? Forse l’ultima visione del mondo
prima della sua cancellazione proiettata nell’imcomprensibile ma perturbata
espressione di Henry che già si trova, senza saperlo, in un desolante e onirico mondo
post-apocalittico.
Se
il quadro d’insieme si dimostra decisamente allarmante un utile esercizio può essere
mettere a nudo l’immagine dei pensieri e delle paure umane attraverso la
prefigurazione filmica.
Iniezioni
oculari per sperimentare, simulare, esorcizzare l’eventuale fine del mondo e la
situazione post-atomica da homo homini lupus.
I
Maya, Nostradamus, San Giovanni, sono tutti d’accordo sull’arrivo di questa
distruzione/ricreazione planetaria. Ogni tanto nella storia sembra avvicinarsi
il momento di questo grande flagello tanto per tenerci in allarme, farci
riflettere sul senso della vita e naturalmente lucrarci sopra il più possibile.
Paranoie,
fobie, visioni, bunker con scorte di minestre Campell, profezie che aumentano,
le sette che cominciano a programmare i suicidi di massa.
Siamo
sicuri che la fine del mondo deve ancora arrivare? O ci siamo già dentro e ci
consuma lentamente? La bomba non potrà esplodere perché è già esplosa, anzi
esplode ogni giorno. L’apocalisse
avviene in ogni minuto ed è vicina e possibile. Siamo noi i piccoli
pianeti che si stanno spegnendo con finte estati ed inverni sempre più lunghi e come nell’ Inquilino del terzo piano fuori non esiste nessun complotto. La vera persecuzione, l’ordigno
dell’apocalisse è nella nostra mente.
Il
seme della follia è letale, contagioso e senza limiti creativi, la materia
filmica si è molto nutrita di psicosi diventando spazio privilegiato di paure e
fantasmi collettivi. In Take Shelter un tranquillo operaio comincia
ad avere terribili sogni su catastrofi che si abbatteranno sul Pianeta. Sono
premonizioni o solo i segnali di un disturbo mentale?
La
fantasia dell’uomo ha generato i tanti “The Day After” prevedendo civiltà al limite,
lande desolate, regressioni all’età della pietra. L’azzeramento di tutto con i
superstiti che si rincorrono per divorarsi a vicenda.
"Il paese incantato" (1968) di Alejandro Jodorowsky |
Nel
film Il paese incantato un uomo
trascina sopra un carretto la sua donna paralitica. Insieme partono alla
ricerca della leggendaria città di Tar, luogo estremo dove rifugiarsi da una
realtà all’ultimo stadio del disfacimento morale. Lo scenario si presenta
apocalittico; un mondo spazzato via in cui i sopravvissuti vivono tra le
macerie senza più riferimenti e regole. Fando e Lis rappresentano la coppia
archetipica. Lottano tra istinto di preservazione e istinto di distruzione del
loro legame.
L’opera
d’esordio del poeta/alchimista Jodorowsky. Cave deserte, cimiteri profanati da
scenette che prendono in giro la morte, donne anziane che seducono uomini
giovani, allegre bande di travestiti, una donna che rappresenta la figura di un
pontefice, antropofagia, vampirismo e molto altro.
Forse
Lis è solo un’invenzione di Fando, la rappresentazione della purezza indifesa
che viene sempre minacciata o corrotta. Il cammino verso Tar si rivelerà una
discesa nell’abisso della psiche da cui riemergono ricordi, dolori, traumi mai
affrontati incarnati da una serie di emblematici personaggi. Un girone
dantesco, un labirinto infernale dove i due protagonisti si ritrovano sempre al
punto di partenza. Quando Lis distrugge il tamburo che rappresenta l’ultimo
prezioso oggetto dell’infanzia, Fando la uccide facendola diventare una santa
divorata dai suoi fedeli che attraverso l’atto del cannibalismo cercano di
conquistare un pezzetto della sua purezza.
"The road" (2009) di John Hillcoat |
Un
altro sfondo post-apocalittico, un altro viaggio della speranza, un’altra
coppia: un padre e suo figlio. In The
Road il mondo è diventato un luogo sconfinatamente selvaggio dove gli
uomini si dividono tra prede e predatori. Un inferno del nulla, in cui il male
è diventato la scelta per la sopravvivenza.Vedere un bambino buttato in uno
scenario simile fa paura. La sua (r)esistenza sembra impossibile. Il padre lo
definisce ‘la mia garanzia’, in un mondo in cui ogni giorno è più grigio del precedente,
il bambino diventa quel fuoco da non far spegnere per nessuna ragione. Anche in
questo caso la purezza e l’innocenza contro le disfattezze dell’umanità.
La
morte è un pensiero incessante sia come pericolo tangibile ma anche come
liberazione, alternativa al teatro delle crudeltà inflitto dai predatori. Il
bambino nasce nella fine del mondo, in un contesto senza più nomi, riferimenti
temporali e spaziali. La sua vita è racchiusa tra la morte della madre che non
vede e quella del padre a cui assiste integralmente.
"Il tempo dei lupi" (2003) di Michael Haneke |
Il tempo dei lupi
di Michael Haneke inizia con l’uccisione del capofamiglia lasciando allo sbando
una donna e i suoi due figli in mezzo ad un inprecisato e spietato paesaggio
nebbioso spogliato da chissà quale cataclisma. Ancora un bambino come agnello
tra i lupi che sul finale decide di compiere una specie di sacrificio saltando
nel fuoco per purificare la Terra dai suoi mali.
Una
moltitudine di proposte, di possibili orrori futuri. Chissà tra i tanti, quale
si avventerà su di noi. Oppure rimarranno solo grandi fantasie, sfoghi
liberatori del nostro inconscio.
Il
cinema può curare il male del mondo? Può elaborare gli sbagli del passato? Può
illuminarci sulla via futura? Oppure è solo un attraversamento senza giusta
destinazione. Il nostro matrix in cui alienarci a piacimento, dove i sogni e
gli incubi si consumano ripetendosi in un ciclo perpetuo.
(Saggio di Maddalena Marinelli tratto dal catalogo della rassegna Finimondi )
Complimenti per la scelta dei film, che offre un quadro multisfaccettato della tematica, e per la lucidità della loro lettura ed interpretazione.
RispondiEliminaA completare il tutto, l'uso di un linguaggio che sa toccare, come avvertimento e monito, le corde più intime dell'animo umano.