sabato 13 ottobre 2012

"Caravaggio", di Derek Jarman


Jarman/Caravaggio dentro lo stesso malessere esistenziale
di Maddalena Marinelli 

Nella prigione di un corpo malato e agonizzante ‘Michele delle ombre’ evade nel ricordo, ripercorrendo la sua vita segnata da genialità e sregolatezza.
Non è morente sulla spiaggia di Porto Ercole, si trova disteso in un letto all’interno di una casa assistito dal suo giovane servo Jerusalem, compagno della sua solitudine, testimone muto della sua esistenza.
Personaggio creato per consolare ed  assistere senza la possibilità di emettere giudizio.
La malattia è una costante nell’anima e nella carne. Nella sofferenza sembra che la creatività si intensifichi e diventi l’unico scopo da inseguire fino alla morte.
Inevitabile specchio, riferimento autobiografico. Derek Jarman scopre di essere sieropositivo nel 1986. Lotterà contro la malattia fino al 1994 continuando, nonostante le gravi complicazioni derivanti dall’AIDS, la sua attività registica e sostenendo le lotte contro la legislazione anti-gay.
Jarman oltre ad essere un regista è anche un pittore e in questo c’è un’altra congiuntura d’immedesimazione con l’artista lombardo.
Il film Caravaggio esce proprio nel 1986 dopo sei anni di gestazione.
E’ un ritratto immaginario, una personale lettura di Michelangelo Merisi ma fedele alla sua personalità e alle sue emozioni più nascoste.
Si snoda sul doppio binario pittura e amore, giocando sulla continua citazione di gesti, movimenti, luci rubate al possente visionarismo caravaggesco.
La sua vita reale, a confronto, sembra un debole appiglio temporale di fronte a quello che poi lo renderà immortale. Ecco perché il regista si permette di stravolgere e ricreare gli eventi, per riuscire a focalizzare ed attualizzare in modo più efficace l’indole dell’artista.
Jarman attraverso il suo cine-teatro dipinge Caravaggio prima come un ragazzo di strada bello e dannato che si prostituisce per poter dipingere e poi da adulto lo trasforma in un ambiguo dandy ottocentesco sotto la protezione del Cardinal del Monte.
Le improvvise e fugaci incursioni moderne come luce elettrica, motociclette, macchine da scrivere, riviste, provocano un black out nel decorso delle immagini. Un senso di finzione  che si vuol dichiarare allo spettatore.

Perché qui non è importante raccontare correttamente una storia, informare sugli eventi.
Il meccanismo è stato aperto, lo scopo è di esprimere libere considerazioni su Caravaggio, rendere attuale la sua poetica e i suoi turbamenti interiori.
Uno spirito creativo che osa sulla riflessione e l’indagine attraverso il linguaggio cinematografico.
La chiave di lettura verte sull’esplicita sessualità usata come merce di scambio che nasconde una feroce ricerca dell’affettività.
I personaggi sono espressi più dal corpo che dalla parola. Ognuno è definito da un pathos estetico essenziale, ben studiato, che lo racconta perfettamente.
L’unica voce che s’impone per tutto il tempo e riassembla il passato col presente è quella fuori campo dello stesso artista che sembra echeggiare dal suo letto di morte, per raccontarci la sua storia prima che sopraggiunga il silenzio della fine.
Sguardi intensi e provocanti rubati ai giovani soggetti dipinti da Caravaggio dalla spavalda fisicità sensualmente volgare.
Ragazzi di strada incontrati in una Roma popolana in cui lui stesso s’immergeva quotidianamante, dividendosi tra la frequentazione delle imbalsamate corti dimore dei suoi illustri committenti e le bettole malfamate dove assaporava la violenza delle passioni. Si sporcava con quel sangue che poi trasmutava in pigmento sulla tela.
Sempre sul limite tra vita e morte. E’ la vitale crudezza dell’essere da descrivere cronisticamente senza alternative. Quella vita violenta di nessuna speranza nessuna paura che arriverà fino a Pasolini.
Ricchezza e povertà si mescolano  nella scena della festa in maschera in un rituale di seduzione e morte celebrato dal Pontefice-Satiro sullo sfondo del memento mori.
Un personaggio curioso è il critico scettico che tratta con cinico snobbismo le opere di Caravaggio. Lo ritroveremo protagonista in un tableaux vivants ispirato alla Morte di Marat di Jacques-Louis David, concentrato a scrivere una stroncatura sull’opera “Amore Vittorioso” .
Non è concesso sapere se gli sarà riservata la stessa fine del rivoluzionario francese pugnalato a morte in una vasca da bagno. Una frecciata rivolta alla categoria della critica?
Non esistono esterni. Nel film le azioni si svolgono tutte in una continua successione d’interni metafisici che richiamano il tipico spazio caravaggesco.
Un vuoto mistico. Per accogliere Dio bisogna svuotarsi di tutti gli elementi terreni.
Fondali scuri, rosso, ruggine, terra bruciata su cui si susseguono tableaux vivants fino a quello finale della Deposizione, dove il corpo del Cristo diventa quello del Caravaggio morto, osservato dal se stesso bambino che inconsapevolmente assiste ad una premonizione del suo futuro.
Jarman non  sfrutta un semplice flash back. I piani temporali si stratificano prendendo in considerazione anche la dimensione onirica. Tutto si ricongiunge in un moto ciclico di Nascita- Morte-Rinascita che rispecchia il valore mitico dell’artista che non può avere una fine fisica ma persiste contaminando per sempre il percorso della storia.