mercoledì 20 gennaio 2021

'UNDINE', di Christian Petzold

 

 UNDINE di Christian Petzold


L’amore rianimato
di Maddalena Marinelli

 “Credo in ogni cosa fino a quando non si dimostra il contrario. Quindi credo nelle fate, nei miti, nei draghi. Tutto esiste, anche se è nella nostra mente. Chi ci dice che i sogni e gli incubi non sono reali come il qui e ora?”                                                                                (John Lennon)
 
L’irrisolto di un passato storico o individuale non può essere ignorato; se proviamo ad ingannarlo prepotentemente riemerge per ammonire o punire.
L’eco di un’ arcaica maledizione arriva dal profondo degli abissi, affiora dalle acque, serpeggia sulla terra ferma, nella foresta, fino ad arrivare in una zona urbana.
Qui l’antico mito si fonde e sedimenta con l’odierna modernità; sopisce, quasi scompare ma la sua potenza inumata spietatamente rivive e non accetta alcuna venia.
Undine Wibeau conserva e divulga la memoria della sua città. 
La giovane donna vive a Berlino ed è una storica dell'urbanistica della capitale tedesca. 
Lavora come relatrice ad una mostra di modelli urbanistici e planimetrie che testimoniano i cambiamenti che la città ha subito nello scorrere dei suoi tormentati trascorsi storico/politici.
Il suo fidanzato Johannes la lascia per un’altra donna e Undine sconvolta ribatte: “Avevi giurato di amarmi per sempre. Lo sai. Se mi lasci dovrò ucciderti.”  Sono solo le parole esasperate di una donna profondamente ferita oppure, cosa possono significare?

Paula Beer in 'Undine' 

Poco dopo, inaspettatamente, Undine conosce Cristoph. 
Un colpo di fulmine, il vero amore, un uomo che la ama per quello che è, per cui vuole combattere dimenticando Johannes.
“Credevo di non riuscire a vivere senza lui ma non stavo aspettando lui, attendevo te.”
Chi è veramente Undine?
Quella sua appartata, minimale quotidianità, che si ripete giorno dopo giorno in luoghi, spazi, percorsi, vestiari sempre uguali, sembra avvolta da un’aura misteriosa e inafferrabile.
Quali sono le sue origini?

'Undine', di Christian Petzold

Sott’acqua, il suo nome compare inciso sopra un antico rudere, una tomba sommersa nelle propondità di un lago.
E’ forse una creatura che incarna un ‘altrove’ che sta svanendo?
Nulla è quello che sembra.
Voci, ombre, sensazioni, presagi avvolgono la sua vita.

'Undine' di Christian Petzold

Anche piccoli, banali incidenti come l’acquario infranto, la rottura della statuina del palombaro o la macchia di vino rosso sul muro, anticipano inevitabili eventi.
Un antico mondo sovrannaturale irrompe nel reale ma Undine sfida il mito. Non vuole tornare alla maledizione, al lago nella foresta.
Non vuole andarsene.
Lei vuole amare ma la sua ‘sovversione’, ad un antico patto, non ha successo.
La sua interferenza scatena il dramma.
“Il mito è il fondamento della vita, lo schema senza tempo, la formula secondo cui la vita si esprime quando fugge al di fuori dell’inconscio.”
(Thomas Mann)
Il reale si allinea perfettamente col metafisico.
La storia di Undine potrebbe essere quella di una creatura magica celata in fattezza umana; ovvero trattasi di un’ Ondina, la bella ninfa fluviale, in cerca di un amore umano, che uccide il compagno traditore secondo un antico mito del folklore germanico.
Oppure Undine devia; trattasi di una donna che si perde in un concetto d’amore malsano, fino ad arrivare alle estreme conseguenze, in un delirio di vendetta e sacrificio che può rientrare tra i tanti fatti di cronaca nera odierna.

'Undine' di Christian Petzold

Christian Petzold, riesce a condurre magicamente  lo spettatore in questo doppio percorso, sviluppato in uno stesso spazio, attraverso una visione simultaneamente misurata e struggente dell’attualizzazione di una figura mitologica.
La cronaca di una semplice love story arriva a toccare un’ impensabile profondità carica di potenza metaforica.
I meriti vanno anche alle interpretazioni di Paula Beer e Franz Rogowski che riescono a creare un'autentica affinità fatta di gesti, guardi, silenzi più che di parole.
Petzold ci rapisce attraverso la sua regia immersiva, dolcemente rigorosa, cullata dall’ossessivo ripetersi  dell’Adagio in re minore, BWV 974, dal concerto per oboe di Alessandro Marcello, adattato per il clavicembalo da Bach.
Una storia d’amore che si lega alla storia di Berlino nelle sue fasi di espansione, distruzione durante la Seconda Guerra Mondiale, divisione tra Est e Ovest e riunificazione.

Paula Beer e Jacob Matschenz in 'Undine'

“Non esiste una storia che non sia politica. La politica finisce sempre nella narrazione” (Christian Petzold)
Come in una storia d’amore anche nella storia urbanistica di una città, nonostante le mimetizzazioni, non si possono nascondere quelle tangibili lacerazioni che evocano qualche doloroso passato.
Ferite e guarigioni. Crolli e ricostruzioni.
E dal dolore o si muore o si riparte.
“Berlino è una città che continua a cancellare sempre di più la propria storia. Il Muro, un elemento caratterizzante di Berlino, fu abbattuto in brevissimo tempo. Il nostro modo di affrontare il passato e la storia di Berlino è brutale. Anche l’Humboldt Forum è un saccheggio del passato, perché Platz der Republik fa parte della storia di Berlino. E ho pensato che questi passati distrutti questi miti residui, fanno parte della nostra storia di Undine.” (Christian Petzold)

Paula Beer e Franz Rogowski in 'Undine'

Undine è un eroina romantica che si 'rigenera' con l'amore; un essere malinconicamente etereo che appartiene alla natura come la Tess di Polanski, con cui condivide l’impossibilità di una felicità sentimentale terrena.
Entrambe non possono sottrarsi ad un richiamo ‘selvaggio’, necessario per ripristinare un arcaico equilibrio incomprensibile e deplorevole per la società in cui vivono.
Per l’anomala Bess, in Le onde del destino di Lars von Trier, il pegno per la vita dell’amato Jan consiste in un folle atto sacrificale.
Undine per salvare Cristoph abbandona il raziocinio e la sua vita terrena per seguire il richiamo, il credo di una dispersione onirica a cui appartiene.

Paula Beer in 'Undine'

Da quelle primordiali paludi che diedero le origini a Berlino; dall’abisso di un passato inamovibile, gli antichi spiriti acquatici la reclamano.
Undine sprofonda portando con sé la storia di un amore che permane anche dopo la fine.

domenica 3 gennaio 2021

L' UNIVERSO #3 : 'PROMETHEUS', di Ridley Scott

 

'PROMETHEUS' (2012) di Ridley Scott

Creazioni e distruzioni
di Maddalena Marinelli

Nostalgici dei terrificanti xenomorfi, dei collosi facehugger, dei voraci embrioni spaccapetto, della prodigiosa bava corrosiva che sgocciolando dissolve qualsiasi superficie. 
Sembrava tutto archiviato nel 1997 con Alien 4 – La clonazione e con qualche rilancio più recente nel  crossover/prequel/spin-off Alien vs Predator.
Con Prometheus si ricomincia e sembra che ci sarà finalmente rivelata la genesi di questo misterioso male alieno. 
E’ così necessario spiegare l’origine del mostro? 
Infondo svelare e chiarire troppo,  smorzando il mistero, farebbe svanire ogni paura e ogni autorevolezza dell’oscura entità. 
Però il farlo solo credere è un vecchio trucco che funziona sempre. 
Ecco perché milioni di spettatori imbufaliti infieriscono sul film Prometheus
La maggior parte sono i fedeli fans di Alien rimasti delusi perché si aspettavano di avere quelle risposte rimaste sospese nel lontano 1979 e non arrivate neanche nei sequel. Invece Prometheus è una creatura ambigua. 
E’ il prequel di Alien e poi invece non lo è, come dichiara infine lo stesso Ridley Scott.
Un evidente collegamento esiste ma è un’opera che va per una strada diversa. 
Può essere definito più come un reboot.
Inizia ponendosi i grandi interrogativi del Chi siamo? Da dove veniamo? Chi ci ha creati? 
Nel corso del film capiamo, come al solito, quanto può essere pericoloso, distruttivo e deludente cercare queste risposte. 
In particolar modo tutto gira intorno al “Chi ci ha creati?”, marcando sull’affascinante ipotesi che l’umanità sarebbe stata forgiata da una razza aliena superiore, mettendo in discussione sia la teoria evolutiva di Charles Darwin sia quella della creazione dell’uomo per mano divina.

'Prometheus' di Ridley Scott


Sull’idea del paleocontatto l’astronave Prometheus parte verso uno sconosciuto pianeta nel profondo spazio per cercare i nostri creatori, i cosidetti ‘Ingegneri’. 
Diciamo che lo schema di Alien si ripete: il risveglio dalla criostasi di un equipaggio molto eterogeneo; la presenza di un ambiguo androide con una missione segreta; l’esplorazione del pianeta; un’indefinibile mostruosità aliena che inizia un contagio per prolificare la sua specie; il caos, l’eroina protagonista unica sopravvissuta con in mano i pezzi dell’androide decapitato.
Nessuna risposta viene data, anzi, la sensazione è quella che gli interrogativi si moltiplichino gradualmente. 
Misteriosi vasetti con dentro un liquame nero, serpenti stritolatori, poliponi- facehugger, super uomini dal fisico scultoreo col nostro stesso DNA si aggiungono alla classica iconografia di Alien senza dare molte spiegazioni. 
Così tutti se la prendono con lo sceneggiatore Damon Lindelof, e le sue manie di creare e far moltiplicare idee, allusioni di matrice mitologica/filosofica. 
Ipotesi su ipotesi espresse dagli stessi personaggi senza arrivare mai ad una soluzione chiarificatrice o meglio disseminandole furtivamente nel corso della vicenda ma lasciandole sfuocate nel dubbio. 
Dopo il mistero del fumo nero di Lost ci toccherà arrovellarci sul mistero del liquido nero di Prometheus.
All’interno di una struttura più asciutta e decisa anche Alien lasciava dei misteri irrisolti e questo non ha penalizzato il film. 
In Prometheus  si consuma una curiosa lotta interna:  Lindelof contro Scott.
I duellanti restano più o meno alla pari ma sembra infine prevalere la regia serrata di Ridley Scott sulla lostizzazione dello script di Lindelof. 
Il regista inglese ci regala ancora una volta quel suo sguardo nichilista, spietato, nostalgico e introspettivo di raccontare la fantascienza come lotta ideologica tra creatori e creature. 
Oltre al più esplicito riferimento ad Alien c’è anche un rimando a Blade Runner sulle riflessioni e conseguenze  del rapporto col mondo degli esseri artificiali, concentrate nel curioso personaggio dell’ androide cinefilo David che porta i capelli come l’attore Peter O’Toole. Apparentemente servile e allo stesso tempo dominatore degli eventi.  
Pur essendo un essere artificiale, programmato dal presidente della Weyland Corporation, dimostra una spiccata personalità con le sue argute intuizioni e con il suo pericoloso spirito d’iniziativa che contribuirà a favorire l’immonda entità aliena.

Michael Fassbender in 'Prometheus' di Ridley Scott


“Tutti i figli vogliono veder morire i loro genitori” dice l’androide David alla Dottoressa Shaw.
L’odio/amore tra padri e figli naturali/artificiali in una perversa catena evolutiva in cui si annida l’ombra dell’essere mostruoso molto più riconducibile alla scelleratezza umana che ad un origine lontana negli abissi cosmici.
In Prometheus rimane inalterata la magnificenza delle immagini che incantano e sorprendono fino alla fine. 
Mentre tutti sono immersi nel sonno dell’ibernazione seguiamo David attraversare in bicicletta i silenziosi ambienti dell’astronave per poi ritrovarlo a guardare vecchi film e spiare i sogni dei membri dell’equipaggio.  
Inevitabile non pensare all’inizio di Alien, alla profetica sequenza degli interni deserti della Nostromo, sotto l’invisibile influsso del computer Mother.
Si ripete un imponente spettacolo visivo che evolve dai claustrofobici ambienti chiusi di Alien agli immensi esterni del pianeta LV-223 con tempeste di sabbia, scontri tra enormi navi spaziali che incombono sulla minuscola figura umana per tornare nei labirintici e oscuri corridoi/gole in cui si nasconde il mostro alieno e tutto il suo diabolico universo d’innesti biologici e meccanici ancora una volta splendidamente creati dalla mente dell’artista svizzero HR Giger. 
Molto di più di una scenografia, una grande operazione artistica, un enorme dettagliato affresco iconografico pitto-scultoreo di un  minaccioso inferno alieno, in cui continuano ad aggiungersi inorridenti metamorfosi visive con continui rimandi all’apparato genitale.
Ed eccolo comparire nell’ultimo frame il piccolo antenato dello xenomorfo ma cosa combinerà per il momento non possiamo saperlo.

Noomi Rapace in 'Prometheus' di Ridley Scott


L’inquietante e fastidiosa tara che si trascina Prometheus è costituita dai troppi e spudorati segnali che definiscono il film come una sorta di prima parte preannunciando un sicuro sequel. 
La formula della serialità che ormai dalla televisione dilaga sempre di più nel cinema, anche quando si tratta di grandi autori come Sir Ridley Scott, riuscendo a sporcare l’integrità di un’opera filmica con strategie commerciali tristemente omologanti. Speriamo solo che nel futuro il cinema non sia destinato a diventare un intrattenimento per robot che ripetono celebri battute e prendono spunto dagli attori per un taglio di capelli.