domenica 15 agosto 2021

LA FINE DEL MONDO #12: ‘THE TREE OF LIFE’, di Terrence Malick

 

THE TREE OF LIFE (2011) di Terrence Malick

Anatomia della vita tra inizio, fine e oltre.

di Maddalena Marinelli
 
Razionale e inafferrabile. 
L’albero simboleggia una contrapposizione di forze rivali, l’attaccamento alla terra e l’elevazione verso il cielo. 
Cammino di discesa e cammino di risalita; “la scala di Giacobbe” dove c’è il continuo passaggio degli angeli, sale e scende anche la consapevolezza degli esseri umani. 
Lungo l’albero si elevano i pensieri e le preghiere di coloro che cercano 'L’Essere supremo'. 
E’ a questo che più assomiglia The Tree of life,  a una lunga preghiera, un dialogo con un Dio muto che risponde solo attraverso le immagini, tramite l’impassibile flusso della continua rigenerazione dove le nostre drammaturgie umane si susseguono senza risposte, senza un senso. 
Creature che sono  alla ricerca di un contatto con l’imprevedibile 'creatore' che come può dare può togliere. 
Oppure una (im)possibile visione di quello che percepiremo dopo la morte tra ricordi della nostra vita, trasmigrazioni della materia, affetti ritrovati, luoghi dove 'il significato' ci sarà forse chiarito.

'The Tree of life' di Terrence Malick

Malick genera uno tsunami emotivo d’ immagine e suono inseguendo l’avventura della vita tramite una densità di segni e suggestioni, partendo dal microcosmo di una famiglia della provincia americana degli anni '50 per riverberare nel macrocosmo, riattraversando la genesi dell’uomo.
Un viaggio dell’eternauta. 
A differenza dei  suoi precedenti film in cui (r)esiste pur sempre una vicenda/parabola ben precisa, narrata dall’immancabile voce fuori campo che ricorda l’antico rito del condividere e tramandare, in The tree of life la trama viene continuamente, volutamente cancellata diventando un flusso di frammenti ciclici tra passato, futuro e vita ultraterrena. Sembra il frammento/trailer infinito di una vicenda che ogni volta riparte in loop con qualche variazione aggiunta.
Nel suo ossessivo ripetersi si espande ogni volta un po’ di più in un montaggio ipertrofico gestito da ben cinque montatori. 
Nello scandagliare l’interno si cerca ciò che fa pulsare l’esterno. 
E’ come se un vento atomico avesse risucchiato tutte le parole. 
L’inquadratura rimane quasi sempre ad altezza bambino, scrutando gli adulti dal basso verso l’alto o facendone vedere solo dei dettagli, come quando i piccoli intimoriti cercano di sfuggire dallo sguardo accusatore dei grandi. 
Poi l’occhio si apre improvvisamente sull’infinito eremitaggio nello spazio dell’anima, in un susseguirsi di epifanie organiche, in un viaggio fantastico fino all’origine della vita. Un nucleo oscuro che si apre alla moltitudine e alla mutazione del colore e della forma grazie agli effetti speciali di Douglas Trumbull, lo stesso di 2001: Odissea nello spazio, Emmanuel Lubezki alla fotografia, Alexandre Desplat alle musiche; la triade tecnica che ha permesso il connubio dialettico tra immagine e suono.
Brad Pitt e Jessica Chastain in 'The Tree of life' 

I personaggi (padre, madre, figli) diventano i container che sigillano forze contrapposte tra innocenza, durezza, odio, amore, rabbia, perdono che si alternano nel percorso di crescita di Jack: “Papa’, mamma, voi due siete in lotta dentro di me e lo sarete sempre”. In Jack è possibile cogliere l’attimo preciso in cui inizia a germogliare il male sul tenero terreno dell’innocenza infantile che se troppe volte offeso, trascurato, incompreso, violato inizia a formare quella catena di disamore alla base di malesseri, disumanizzazioni o gesti distruttivi futuri.

Sean Penn in 'The Tree of life'

Ancora una volta Malick enuncia la sua critica nei confronti dell’ipocrisia del sogno americano, che di fatto si trasforma in incubo, in una grande frottola.  
Dietro la bianca facciata della  famiglia felice, dell’ostentato moralismo, del benessere economico, dell’accoglienza si insinua l' odio, lo sfruttamento, l' individualismo, la smania di supremazia. 
Non a caso, nel film, questo stato di decadenza e smarrimento interiore, esteticamente, prende le sembianze di due forze dello star system come Brad Pitt e Sean Penn per infrangere l’idea di icone americane rassicuranti. 
In un’atmosfera desolata e raggelata, alienamente, i due attori attraversano i luoghi simbolo dell’ America dai grandi spazi aperti, alla casetta col portico, agli interni ipermoderni dei grattacieli. 
Costruzioni di una finta vita. 
Il padre ha consumato la sua esistenza intrappolato in falsi miti; al figlio è ancora concessa la possibilità di comprendere se stesso e trovare la sua strada.
Strani quei film attesi da tempo di registi che decidono di rimanere nell’ombra anche quando vincono la Palma d’oro a Cannes. 
Forse una buona strategia per farsi notare di più e alimentare il mito, forse semplicemente la voglia di fare il proprio lavoro rimanendo fuori dall’esposizione mediatica. 
Queste opere sono sempre oggetti misteriosi e preziosi che lasciano lunghe scie di fascinazioni profetiche.
Il cinema ultimamente si affanna  a raccontare un po’ troppo, è ipernarrativo, ipersceneggiato, iperspiegato sempre alla famelica ricerca di storie.
Terrence Malick un cineasta che vive senza dubbio in un'altra dimensione, che non è la nostra, ci consegna un’opera aperta in cui c’è ancora quello spazio necessario per lasciare il respiro alle nostre riflessioni contro la pratica, molto frequente, di quelle veloci consumazioni di amplessi cinematografici.

'The Tree of life' di T. Malick

Può il cinema ancora generare meraviglia? 
Di quel tipo che soddisfa la fame interiore, provocare un moto rivoluzionario, scuotere, innescare dentro di noi ordigni apocalittici per risvegliarci dai torpori della strategia dell’intrattenimento.
Cercare in ogni frame l’immagine assoluta come Kubrick, Bergman, Hitchcock, Visconti, Scorsese, Eastwood, 
Malick  può sembrare pretenzioso scivolando su un certo compiacimento estetico ma è (in)sana superbia d’artista.