domenica 28 novembre 2021

'ANNETTE', di Leos Carax

 

ANNETTE di Leos Carax

La roulette russa dello showbiz
di Maddalena Marinelli

“Qualora vogliate cantare, applaudire, piangere ridere o sbadigliare, siete pregati di farlo solo e unicamente nella vostra testa. Quella che viene richiesta è la vostra completa concentrazione, insieme al più assoluto silenzio”. (incipit del regista Leos Carax)

Henry e Ann si amano tantissimo, nonostante siano molto diversi.
Lei è l'apollineo; una celebre cantante lirica bellissima ed eterea che ogni sera 'salva' il suo pubblico.
Lui è il dionisiaco; un apprezzato stand-up comedian aggressivo e irriverente che ogni sera 'distrugge' i suoi spettatori.
L'elefante e la farfalla diventano la coppia più paparazzata del momento mentre le loro carriere artistiche volano sempre più in alto.

Marion Cotillard e Adam Driver in 'Annette' di Leos Carax

Il tutto trionfa in un matrimonio da cui nasce la piccola Annette, una creaturina molto speciale in cui si rifletterà  un amore genitoriale sbranato dal lato narcisistico e manipolatore di Ann ed Henry che finirà per oscurare e travolgere la fragile famigliola tra odio, tradimenti ed invidie.
L'inquietudine di Henry non sarà più così attraente ma diventerà pericolosa, soprattutto dopo il tracollo della sua carriera artistica.
L’infanzia di Annette sarà brutalizzata da una serie di tragici eventi.
La bimba verrà sballottata come un fantoccio da un palcoscenico all’altro da un padre che, una volta persa per sempre la sua popolarità, vuole sfruttare l’eccezionale talento della figlia.

'Annette' di Leos Carax

Carax padre dedica questo suo sesto lungometraggio alla figlia Nastya e con lei inizia il film, facendo intendere la presenza di un significativo riferimento autobiografico legato alla sua storia famigliare e alla moglie Katia Golubeva che si è tolta la vita nel 2011.
Annette non è solo un musical ma un ensemble di generi: dramma, commedia, noir, miscelati con sapienza e ricercatezza estetica.
Si affronta la crisi artistica e umana sfociando negli attualissimi temi delle molestie sessuali e del femminicidio.
Come in Holy Motors si  gioca tra simulazione e realtà svelando gli ingranaggi del mondo dello spettacolo.
Il cinema ansiogeno e futurista di Carax ci travolge in un turbine di immagini ed emozioni.
Un' esperienza visiva in cui ogni singolo fotogramma racchiude un senso. 
La purezza di un cinema sovversivo e destabilizzante che si spoglia di ogni narrazione convenzionale comunicando attraverso corpi, musica, epifanie, allegorie per descrivere lo stato delle cose presenti e darci alcuni scorci su possibili scenari futuri.
Un mattatoio visivo dove esplodono colori, parole, azioni.
L’urlo di Carax diventa in Annette musical irriverente dove sotto la pioggia non si balla ma si ammazza.
Un acquazzone non basta, ci vuole un diluvio universale.
Metacinema che punta il dito sullo star system tritacarne e sulla gogna mediatica.
Meraviglie ed orrori dell'identificazione con la propria arte.  

Marion Cotillard in "Annette' di Leos Carax

Apoteosi dell’amore che può essere soave e poetico ma anche brutale e osceno, mutando nel tempo in pulsione oscura.
Nella malinconica faccetta di Annette dalle grandi orecchie, si scorge il volto iconico e spaurito di un petit Denis Lavant che immancabilmente attraversa tutta l’opera di Carax in carne e ossa o evocazione.
Nella splendida sequenza finale Annette rivolgendosi al padre dirà: "Non hai più nessuno da amare", gettando le sue catene, emancipandosi dai suoi sciagurati genitori, si rivela nella sua compiutezza allo spettatore come portatrice di verità.
Non la vediamo più attraverso lo sguardo di Ann ed Henry.
Adesso libera dal suo simulacro, potrà scoprire se stessa e l’autenticità del mondo lontano dai rifletttori.

sabato 16 ottobre 2021

MAD MOVIES PARADE 5: LA FOLIE A DEUX

 


Duetti folli al cinema
di Maddalena Marinelli

In conflitto con la realtà circostante.
Vittime dello stesso malessere interiore.
Incompresi o privi di comprensione.
La folie à deux. Il malefico duo.
Uniti nella medesima visione del mondo.
Spinti dalla stessa anomalia verso la realizzazione di un folle progetto.
Il dominante e il sottomesso si completano  e si fomentano a vicenda.
La coppia psicopatica agisce per vendetta, per soldi, per compiere astrusi piani o per pura cattiveria.
Possono essere amici, fratelli, amanti, coniugi o due persone sconosciute unite dal fato verso medesimi oscuri intenti.
Manifestano le deformazioni psichiche inflitte sull’uomo dalla società e delineano nuove mitologie contemporanee.
Sono specchio di patologie, paure, desideri, crisi della realtà odierna.

Paul e Peter (Arno Frisch e Frank Giering)  in 'Funny game' (1997) di M. Haneke


Due ragazzi biondi dal candido faccino perfettamente accostato alla loro immacolata divisa bianca da golf.
Con un pretesto bussano alle porte di borghesi benestanti introducendosi, con un certo bon ton, in case dagli interni accoglienti e ben curati.
In realtà dietro queste ‘maschere’, da bravi ragazzi, si celano due giovani psicopatici invitati ad entrare, da ignare famigliole concentrate su come trascorrere le loro vacanze estive tra gite in barca, barbecue, tranquille serate tra amici.
Quando la porta si richiude  Paul e Peter iniziano il loro implacabile ‘funny game’, lento e perverso.
Una volta arrivati al game over si ricomincia con un'altra famiglia.
Nel cinema di Michael Haneke c’è sempre una minaccia, una violenza allo stesso tempo concreta e metaforica, in tutta la sua freddezza e determinazione, insita nell’uomo moderno.
Non siamo mai al sicuro dal male che ritorna indietro come un boomerang.
Una violenza annientatrice apparentemente senza alcun senso, che colpisce ciecamente ma che ha radici molto profonde da ricercare in un passato storico o individuale irrisolto.
Paul e Peter agiscono a favore di telecamera come a rendere complice il pubblico che osserva e partecipa ad una sorta di snuff movie in cui vengono seviziate e fatte fuori intere famiglie.
Critica ai mass media che morbosamente diffondono cruenti fatti di cronaca nera dandoli in pasto ai telespettatori senza alcun filtro, anzi esaltandone  i dettagli più macabri.

Sophie e Jeanne (Isabelle Huppert e Sandrine Bonnaire) in 'La cérémonie' (1995) di C. Chabrol


Una coppia di amiche.
Sophie e Jeanne si trovano, si capiscono, coalizzano perché si riconoscono nella medesima vita di emarginazione, di abusi, di ingiustizie.
Vite da cui non aspettarsi nessun riscatto sociale.
Allora le due donne, sulle orme delle sorelle Papin, per invidia o per vendetta scelgono di sfogare tutta quella rabbia e frustrazione repressa sulla famiglia Lelievre, colpevoli di essere ‘i padroni’, i ricchi borghesi dalla vita facile che con la loro arroganza si permettono quando e come vogliono di rovinare le già labili esistenze dei meno fortunati per un capriccio, per pura perfidia o solo perché hanno il potere di farlo.
Sophie e Jeanne caricano i costosi fucili da caccia del capo famiglia Georges e compiono, senza esitazioni, ‘la mattanza’ nel salotto della villa borghese, come nel 1789 il popolo della Rivoluzione Francese irrompeva nelle lussuose case dei nobili per massacrarli o trascinarli in piazza, sotto la lama della ghigliottina, in nome di ‘Liberté, Égalité, Fraternité’.
Il cinema indagatore di Chabrol s’insinua nel cuore ovattato del nucleo borghese per esplodere, annientare, rivendicare, trovare spazio ad impulsi per troppo tempo sopiti.
Rimanendo sul tema home invasion ma passando al puro e crudo horror del geniale Pascal Laugier, assaporiamo sconcerto e ribrezzo in: la donna del camioncino dei dolci e l’orco.

La donna del camioncino dei dolci e l'orco (Kevin Power e Rob Archer) in 'Ghostland' (2018) di Pascal Laugier 


Evocatori di una macabra e grottesca bellezza, sono davvero una stramba coppia di terrificanti aguzzini, sicuramente con indescrivibili traumi infantili alle spalle lasciati tutti alla nostra immaginazione.
Irrompono nella casa dove si è appena trasferita una madre con le sue due figlie scatenando tutte le più orribili perversioni sulle tre malcapitate.
Non sappiamo e non sapremo molto su questi stravaganti serial killer che rappresentano il male puro, la più contorta delle anomalie.
Degustano la violenza come normale routine, centellinandola e ripetendo i loro sadici rituali giorno dopo giorno sulle loro sfortunate vittime.
Inclassificabili; non hanno storia, non hanno nome, non parlano, non sembrano appartenere alla nostra realtà; carichi di un’ energia malefica ineluttabile come Latherface e la sua parentela di antropofagi sciroccati.
Assolutamente terrificanti, usciti fuori dalla versione claunesca della scatola di Hellraiser o da qualche folle, marcio anfratto di Rob Zombie.

Genesis e Bell (Lorenza Izzo e Ana de Armas) in 'Knock Knock' (2015) di Eli Roth


Evan Webber è un’altra vittima di un’invasione e devastazione domestica davvero bizzarra.
Questa volta sono due minute ragazzine le sadiche aguzzine che si accaniranno sull’ignaro padrone di casa, rimasto solo per il weekend.
Evan verrà prima sedotto e poi bastonato dalle scatenate Genesis e Bel.
Vere e proprie castigatrici. Per loro si tratta di ‘una missione punitiva’, contro i papini perbenisti che nascondono tradimenti e molto altro alle loro famiglie perfette.
Le due giovani psicopatiche, di volta in volta, mirano ad un devoto marito e padre di famiglia che sistematicamente non resiste alle loro avances sessuali per poi, dalle stesse, ricevere un’ esemplare punizione e la conseguente, definitiva rovina di quell’esistenza apparentemente senza macchia.
Eli Roth si allontana dal cruento horror di Hostel o di The Green per dirigere egregiamente questa dark comedy intinta di thriller, dimostrando di essere un autore eterogeneo, capace di destreggiarsi bene in altri generi.

Le sorelle Legnani (Pina Borione e Eugene Walter) in 'La casa dalle finestre che ridono' (1979) di Pupi Avati


Le sorelle Legnani sono una coppia di ‘pazzerelle’ dedite, fin da giovanissima età, a riti incestuosi con il fratello pittore a cui procuravano cadaveri da ritrarre.
Le due malevoli sorelle  sono abili seviziatrici e anche in tarda età continuano, in incognito, a praticare torture e sacrifici umani dedicati alla memoria del fratello morto suicida, i cui resti sono amorevolmente idolatrati e conservati in un apposito stipo.
Due orride streghe. Il più terrificante duo di serial killer in età senile.
Un ritratto meravigliosamente tetro, grottesco ed ostile della soleggiata Bassa Padania trasformata da Pupi Avati, maestro di un terrore arcano, in un desolante scenario di orrori celati.
Un villaggio di dannati in cui tutti condividono e preservano un macabro segreto.
Jerry Lundegaard è un altro finto marito devoto che dietro quella sua apparente mitezza e innocuità progetta il rapimento della moglie per costringere il ricco suocero a pagare un riscatto.

Gaear e Carl (Peter Stormare e Steve Buscemi) in 'Fargo' (1996) di Joel ed Ethan Coen


Jerry ha sempre condotto una vita al margine e adesso vuole elevarsi, pensa che sia arrivata la sua occasione.
L’uomo, incautamente, si affida alla coppia di sicari Gaear e Carl, maldestri ma soprattutto mentalmente instabili e parecchio sanguinari.
Ben presto quello che doveva essere semplicemente un rapimento, grazie alla mancanza di ogni logica, remora o minima organizzazione  da parte dei due balordi, finirà in una lunga scia di sangue dritta verso una cippatrice.
Dal talento registico e narrativo dei fratelli Coen, una tragicommedia dai toni grotteschi diventata ormai un cult.
Fargo è stato un punto di riferimento per molte opere filmiche successive, oltre a definire le basi su cui poggia la caustica poetica dei Coen.
Prediletto, quasi sempre come tema centrale, il tentativo di rivincita sociale di personaggi marginali che conduce ad una serie di funesti, strani eventi.
Lynch lo aveva già sviscerato in Blue Velvet o meglio ancora in Twin Peaks: la violenza, il male che si annida nella tranquilla, monotona cittadina di provincia dove non accade mai nulla, si conoscono tutti e, ovviamente, nessuno è quello che sembra.
L’uomo qualunque catapultato in qualcosa che si rivelerà incontrollabilmente fatale.

Roman e Minnie (Sidney Blackmer e Ruth Gordon) in 'Rosemary's Baby' (1968) di R. Polanski


Passiamo alla vorticosa metropoli, esattamente New York e a tutti i suoi possibili deliri.
Gli amorevoli coniugi Castevet sono una normalissima coppia di anziani borghesi in cerca di un giovane fertile grembo, in cui depositare il seme di Satana per dare origine all’Anticristo.
In questo folle piano cadrà l’ingenua Rosemary, che farà non poca fatica a capire di essere finita nelle grinfie di una congrega satanica i cui adepti sono gli inquilini del suo stabile.
Per il marito di Rosemary non è così grave aver donato un figlio a Satana in cambio del successo professionale e tutti sono euforici per la nascita del diabolico pargoletto,  che farà sprofondare il mondo in un inferno terreno carico di supplizi per noi tutti.
Rosemary si arrabbia un tantino e sbraita con un coltellaccio in mano ma poi, cuore di mamma, accetta quel bimbo così ‘speciale’dagli occhietti diabolicamente vispi.
Polanski realizza un perfetto horror psicologico racchiuso in confortanti interni borghesi.
Il male  non si manifesta attraverso un' esplicita e visibile entità ma subdolamente è insito in un contesto reale.
Nessun mostro, niente sangue, nessuna morte cruenta.
E’ straordinario come nulla di questo ‘orrore’ ci venga mostrato ma solo raccontato o suggerito dal mondo onirico e non per questo fa meno paura.

Fabio ed Elisa (Vittorio Gassman e Catherine Deneuve) in 'Anima persa' (1977) di Dino Risi


Un’affascinante ma alquanto decadente coppia di coniugi incastonata all’interno di un’antica dimora veneziana.
Quando il passare del tempo logora il sogno di un amore idealizzato si cerca una soluzione, una via di fuga non sempre comprensibile o da potersi ritenere sensata.
Circondati da silenzio e solitudine Fabio ed Elisa, per poter continuare la farsa del perfetto matrimonio borghese,  si sono allontanati dal mondo per isolarsi in un loro altrove, in cui si può manifestare liberamente il doppio.
Nelle stanze, senza tempo, della loro vetusta magione Fabio diventa il lascivo professore ed Elisa è la piccola Beba.
Un gioco illecito che lentamente sta trascinando entrambi verso un punto di non ritorno. Un segreto sempre più scomodo che attraverso la figura del nipote Tino si dovrà scontrare con un brusco risveglio alla realtà e all’impossibilità di continuare tale delirio.
Sullo sfondo di una Venezia tetra e misterica, un inedito Risi esplora la zona d’ombra, il baratro della follia nascosto all'interno di un apparato borghese.

Mickey e Mallory (Woody Harrelson e Juliette Lewis) in 'Natural born killers' (1994) di O. Stone


Figli di un’America maledetta, segnati e perduti in un abisso di abusi e disfatte Mickey e Mallory sono destinati ad essere assassini nati, uniti nel sangue, selvaggi giustizieri da aggiungere a quello zoo televisivo già gremito di ‘fenomeni’ da esibire ad un pubblico ingordo di atti cruenti, in un rapporto perverso tra violenza e mezzi di comunicazione.
Sono una versione potenziata di Bonnie e Clyde. 
Implacabili. 
Uccidono per il piacere di farlo. 
Angeli della morte affascinanti e nefasti per tutti coloro che incroceranno la loro strada. 
Simbolo e conseguenza di quel degrado morale che cresce ai margini del benessere economico made in USA.
Dai rimasugli di un american dream infranto Mickey e Mallory vogliono trascinare tutto e tutti nel loro caos di rabbia, rancore e odio. 

Claude e Marie (Léa Seydoux e Sara Forestier) in ' Roubaix, une lumière' (2019) di A. Desplechin
 

Roubaix, terra di nessuno, una delle città più povere della Francia con un altissimo tasso di disoccupazione e di criminalità
Assassine per caso o per noia Claude e Marie sono due ragazze interrotte, prive di empatia.
Due tossicodipendenti che una notte progettano di entrare nella casa della loro anziana vicina per derubarla di poche cose senza valore.
Senza un motivo preciso decidono di strangolare la donna perché nel quadro delle loro squallide e brutali esistenze probabilmente è un gesto a cui non dare troppa importanza.
Nella terra lacerata di una città lasciata alla deriva, la devastazione morale avanza.
Roubaix sembra una landa postapocalittica  in cui dei disperati provano a sopravvivere come possono, perdendo la cognizione del bene e del male.
Claude e Marie sono una coppia di sbandate che si dividono un tugurio e una dose.
Non hanno nulla da perdere. Si uniscono nel male diventando, allo stesso tempo, vittime e carnefici.

"Tante cose si fanno per il bene degli altri che diventano il male degli altri e il proprio."
(Leonardo Sciascia)

domenica 15 agosto 2021

LA FINE DEL MONDO #12: ‘THE TREE OF LIFE’, di Terrence Malick

 

THE TREE OF LIFE (2011) di Terrence Malick

Anatomia della vita tra inizio, fine e oltre.

di Maddalena Marinelli
 
Razionale e inafferrabile. 
L’albero simboleggia una contrapposizione di forze rivali, l’attaccamento alla terra e l’elevazione verso il cielo. 
Cammino di discesa e cammino di risalita; “la scala di Giacobbe” dove c’è il continuo passaggio degli angeli, sale e scende anche la consapevolezza degli esseri umani. 
Lungo l’albero si elevano i pensieri e le preghiere di coloro che cercano 'L’Essere supremo'. 
E’ a questo che più assomiglia The Tree of life,  a una lunga preghiera, un dialogo con un Dio muto che risponde solo attraverso le immagini, tramite l’impassibile flusso della continua rigenerazione dove le nostre drammaturgie umane si susseguono senza risposte, senza un senso. 
Creature che sono  alla ricerca di un contatto con l’imprevedibile 'creatore' che come può dare può togliere. 
Oppure una (im)possibile visione di quello che percepiremo dopo la morte tra ricordi della nostra vita, trasmigrazioni della materia, affetti ritrovati, luoghi dove 'il significato' ci sarà forse chiarito.

'The Tree of life' di Terrence Malick

Malick genera uno tsunami emotivo d’ immagine e suono inseguendo l’avventura della vita tramite una densità di segni e suggestioni, partendo dal microcosmo di una famiglia della provincia americana degli anni '50 per riverberare nel macrocosmo, riattraversando la genesi dell’uomo.
Un viaggio dell’eternauta. 
A differenza dei  suoi precedenti film in cui (r)esiste pur sempre una vicenda/parabola ben precisa, narrata dall’immancabile voce fuori campo che ricorda l’antico rito del condividere e tramandare, in The tree of life la trama viene continuamente, volutamente cancellata diventando un flusso di frammenti ciclici tra passato, futuro e vita ultraterrena. Sembra il frammento/trailer infinito di una vicenda che ogni volta riparte in loop con qualche variazione aggiunta.
Nel suo ossessivo ripetersi si espande ogni volta un po’ di più in un montaggio ipertrofico gestito da ben cinque montatori. 
Nello scandagliare l’interno si cerca ciò che fa pulsare l’esterno. 
E’ come se un vento atomico avesse risucchiato tutte le parole. 
L’inquadratura rimane quasi sempre ad altezza bambino, scrutando gli adulti dal basso verso l’alto o facendone vedere solo dei dettagli, come quando i piccoli intimoriti cercano di sfuggire dallo sguardo accusatore dei grandi. 
Poi l’occhio si apre improvvisamente sull’infinito eremitaggio nello spazio dell’anima, in un susseguirsi di epifanie organiche, in un viaggio fantastico fino all’origine della vita. Un nucleo oscuro che si apre alla moltitudine e alla mutazione del colore e della forma grazie agli effetti speciali di Douglas Trumbull, lo stesso di 2001: Odissea nello spazio, Emmanuel Lubezki alla fotografia, Alexandre Desplat alle musiche; la triade tecnica che ha permesso il connubio dialettico tra immagine e suono.
Brad Pitt e Jessica Chastain in 'The Tree of life' 

I personaggi (padre, madre, figli) diventano i container che sigillano forze contrapposte tra innocenza, durezza, odio, amore, rabbia, perdono che si alternano nel percorso di crescita di Jack: “Papa’, mamma, voi due siete in lotta dentro di me e lo sarete sempre”. In Jack è possibile cogliere l’attimo preciso in cui inizia a germogliare il male sul tenero terreno dell’innocenza infantile che se troppe volte offeso, trascurato, incompreso, violato inizia a formare quella catena di disamore alla base di malesseri, disumanizzazioni o gesti distruttivi futuri.

Sean Penn in 'The Tree of life'

Ancora una volta Malick enuncia la sua critica nei confronti dell’ipocrisia del sogno americano, che di fatto si trasforma in incubo, in una grande frottola.  
Dietro la bianca facciata della  famiglia felice, dell’ostentato moralismo, del benessere economico, dell’accoglienza si insinua l' odio, lo sfruttamento, l' individualismo, la smania di supremazia. 
Non a caso, nel film, questo stato di decadenza e smarrimento interiore, esteticamente, prende le sembianze di due forze dello star system come Brad Pitt e Sean Penn per infrangere l’idea di icone americane rassicuranti. 
In un’atmosfera desolata e raggelata, alienamente, i due attori attraversano i luoghi simbolo dell’ America dai grandi spazi aperti, alla casetta col portico, agli interni ipermoderni dei grattacieli. 
Costruzioni di una finta vita. 
Il padre ha consumato la sua esistenza intrappolato in falsi miti; al figlio è ancora concessa la possibilità di comprendere se stesso e trovare la sua strada.
Strani quei film attesi da tempo di registi che decidono di rimanere nell’ombra anche quando vincono la Palma d’oro a Cannes. 
Forse una buona strategia per farsi notare di più e alimentare il mito, forse semplicemente la voglia di fare il proprio lavoro rimanendo fuori dall’esposizione mediatica. 
Queste opere sono sempre oggetti misteriosi e preziosi che lasciano lunghe scie di fascinazioni profetiche.
Il cinema ultimamente si affanna  a raccontare un po’ troppo, è ipernarrativo, ipersceneggiato, iperspiegato sempre alla famelica ricerca di storie.
Terrence Malick un cineasta che vive senza dubbio in un'altra dimensione, che non è la nostra, ci consegna un’opera aperta in cui c’è ancora quello spazio necessario per lasciare il respiro alle nostre riflessioni contro la pratica, molto frequente, di quelle veloci consumazioni di amplessi cinematografici.

'The Tree of life' di T. Malick

Può il cinema ancora generare meraviglia? 
Di quel tipo che soddisfa la fame interiore, provocare un moto rivoluzionario, scuotere, innescare dentro di noi ordigni apocalittici per risvegliarci dai torpori della strategia dell’intrattenimento.
Cercare in ogni frame l’immagine assoluta come Kubrick, Bergman, Hitchcock, Visconti, Scorsese, Eastwood, 
Malick  può sembrare pretenzioso scivolando su un certo compiacimento estetico ma è (in)sana superbia d’artista.

giovedì 1 luglio 2021

‘UNA DONNA PROMETTENTE’, di Emerald Fennell

 

'UNA DONNA PROMETTENTE' in sala dal 24 Giugno 2021


Dentro al rosa un putrido nero
di Maddalena Marinelli

Apollo donò a Cassandra la dote profetica in cambio del suo amore, ma lei, una volta ricevuto il dono, rifiutò di concedersi. 
Adirato, il dio le sputò sulle labbra e con questo gesto la condannò a restare sempre inascoltata.
In seguito Cassandra subì umiliazioni e abusi sessuali da parte di Aiace e Agamennone. Entrambi i vili ebbero una terribile sorte per i loro misfatti.
Quando un orribile crimine resta impunito perché né la sorte, né la giustizia sono intervenuti cosa fare?
La trentenne Cassie ha deciso di farsi giustizia da sola, seguendo una sua ‘esclusiva ritualità’.
Durante la giornata lavora in una tranquilla caffetteria mentre di notte si trasforma in una specie di predatrice di potenziali violentatori.
La missione, l’esperimento sociale, che con caparbietà Cassie attua di sera in sera in diversi locali della città, consiste nel farsi vedere sola e completamente ubriaca.
Ogni volta si avvicina un ‘bravo ragazzo’ che pare voglia aiutarla e proteggerla ma poi prova ad avere un rapporto intimo con lei, incurante delle condizioni di semicoscienza della donna.
A questo punto la bella addormentata si ridesta da sola per cazziare il finto principe.
Fa capire che stava solo fingendo, scatenando il panico nel malcapitato.

'Una donna promettente', di Emerald Fennell

Cassie cerca così di smascherare quanti più ‘lupi’ in circolazione per terrorizzarli e distoglierli nell' assumere questo deplorevole comportamento.
Tutto questo perché?
La giovane donna non riesce ad avere una vita normale, ovvero una carriera all’altezza della sue evidenti doti intellettive, una relazione sentimentale, delle relazioni sociali, una casa propria.
In lei è evidente un disagio pschico molto radicato che condiziona la sua esistenza irrimediabilmente.
La sua vita si è interrotta da anni a causa del suicidio della sua più cara amica, caduta in depressione dopo aver subito uno stupro durante una festa tra studenti.
Ai tempi dell’accaduto Nina non fu appoggiata da nessuno, giudicata perché era ubriaca, 
Non riuscì ad avere giustizia perchè non si potevano rovinare dei giovani americani dalle carriere promettenti e questo distrusse la sua vita e di riflesso anche la vita di Cassie che si è sempre sentita in colpa per non essere riuscita prima a proteggere e poi a salvare la sua amica

Carey Mulligan in 'Una donna promettente'

Come ‘un angelo della vendetta’ la ragazza aspetta da molto tempo l’occasione per fare giustizia e sembra che quel momento sia arrivato, anche se potrebbe costargli tutto.
Cassie ormai vive per raggiungere questo obiettivo, fino all’autodistruzione e al sacrificio.
Follemente cerca e sfida il pericolo, rischia tutto perché non gli interessa far parte di una società così distorta moralmente, dove tutti si dividono tra complici e colpevoli, nascondendo il marcio dietro quella facciata del benestante perbene.

Carey Mulligan in 'Una donna promettente'

Una donna promettente è un revenge movie alternativo che mescola thriller, dramma e commedia fino alla stoccatina horror.
Ci sono riferimenti a Tarantino e a tutto quel cinema orientale che ha richiamato ossessivamente l’eterno tema della vendetta in tutti i modi più variopinti, violenti e folli da Kim Ki-duk a Park Chan-wook.
L’intento sembra essere quello di affrontare un dramma, una tematica sociale scottante e purtroppo ancora attuale, attraverso un filtro stilistico stridulamente leggero e colorato  con brani  di Britney Spears, Paris Hilton,  Spice Girls per disorientare lo spettatore, giocare sul contrasto di vite stimabili che nascondono comportamenti sessisti e violenti.
L'uomo capace di compiere molestie e abusi spesso è perfettamente inserito nella società.
Sono proprio questi 'insospettabili' i più temibili, poichè imprevedibili e intoccabili.

Carey Mulligan in 'Una donna promettente'

Un film che contiene molte buone e brillanti idee ma purtroppo affossate da una regia scialba a cui manca ancora un’autentica personalità  e una padronanza tecnica.
Il film ha uno stile ricercato con dissacranti toni pop e arredamenti kitsch e la tematica, seppur smorzata da tocchi sarcastici, rimane forte e diretta.
Si fa luce, si arriva ad ammonire anche quel bieco esemplare del mondo femminile che spalleggia quello spregevole modo di agire maschile basato sul potere di abusi e violenze sulle donne.
Donne che finchè non sono direttamente coinvolte non riescono a capire da che parte stare, provocando più danni e più delusioni degli uomini.
Emerald Fennell non sarà stata all'altezza come regista ma ha realizzato un' ottima sceneggiatura che ruota, prende forma intorno all’altrettanta egregia interpretazione di Carey Mulligan. in una delle sue prestazioni attoriali più sfaccettate e riuscite.
In perfetta oscillazione tra innocuità e insanità  la Mulligan riesce a vivere e a trasmettere tutto il mondo interiore di Cassie dalla sua profonda sofferenza mai sanata, al  suo 'psicopatico' sarcasmo nel compiere la sua missione con sfumature che richiamano intelletto e look della supereroina/villain Harley Quinn.
D’altra parte, non a caso, il film è prodotto dalla LuckyChap Entertainment, casa di produzione fondata da Margot Robbie.

Carey Mulligan in 'Una donna promettente'

L’immagine dell’infermiera psicopatica dai capelli multicolor che sulle note di Toxic va fiera verso la sua 'resa dei conti', in nome di tutte le promising young women rovinate, rimarrà iconica per molto tempo.

lunedì 3 maggio 2021

LA GENITRICE PSICOTICA #3: ‘LA DEA DELL’AMORE’, di Woody Allen

 

'LA DEA DELL'AMORE' (1995) di Woody Allen 


L’imprevedibilità del desiderio
di Maddalena Marinelli

Protagonista di questa ventiquattresima pellicola di Woody Allen è l’ironia del destino e la riesumazione del coro greco.
Una piccola tragedia mascherata da commedia sotto i potenti influssi della volubile Afrodite che imporrà i suoi sarcastici rimedi.
Le divertenti peripezie di Lenny che in piena crisi coniugale decide di rintracciare la madre del bambino che anni addietro aveva adottato.
Scoperto che la donna è una prostituta, con una promettente carriera da pornodiva, cerca di attuare un piano per redimerla e farla accasare.
Un film  tutto giocato sull’interfaccia col mythos.

Woody Allen e il coro greco in 'La dea dell'amore'

Il caso di Lenny Weinrib è diretto e commentato da un autentico coro greco in collegamento dal teatro di Taormina, con qualche inviato speciale spedito a New York per seguire meglio gli accadimenti. 
Simboleggia la voce della coscienza ma più spesso diventa la voce della banalità enunciando in tono solenne fesserie del tipo: «Quando sorridi, il mondo intero sorriderà con te!». 
Oltre al coro intervengono a dare utili consigli celebrità della drammaturgia greca.
Ed ecco Laio che intuisce un dilatante vuoto nell’unione dei Weinrib.
La sventurata genitrice Giocasta che, nonostante i disastri provocati dalla sua prole, declama il bisogno di lasciar vivere l’istinto di maternità. 

Woody Allen e Jack Warden nel film 'La dea dell'amore'

La guastafeste Cassandra che annuncia sventure imminenti nella vita di Lenny del tipo: «Vedo disastri! Vedo catastrofi! Peggio, vedo avvocati!» o Tiresia che si materializza per le strade dell’Upper East Side nelle sembianze di un mendicante non vedente col dono della veggenza.
Questo serioso coro greco, nell’evoluzione della storia,  diventerà sempre più scalcinato sconfinando ampiamente dallo spazio dell’orchestra dove era relegato un tempo.
Si concede un linguaggio sboccato e gag cabarettistiche, tipo l'invocazione/telefonata a Zeus, fino a degenerare completamente in una scatenata sequenza da musical  sulle note di "When you're smiling" nell’esibizione conclusiva.

F. Murray Abraham in 'La dea dell'amore'

L’austero Corifeo è  interpretato da Fahrid Murray Abraham e come vuole la tradizione si esibisce autonomamente, ribadendo o accrescendo quanto detto dai coreuti. 
Interagisce col protagonista, il suo hypokrités, cercando di farlo ragionare sulle conseguenze delle sue azioni. 
Finisce, nella maggior parte dei casi, per aiutarlo cercando di infondergli il coraggio del valoroso Achille, a massicce dosi, specialmente quando si tratta di rischiare la vita andando a parlare col minaccioso protettore di Linda.
La Dea dell’amore non è sicuramente tra i film più esaltanti della carriera di Allen che in quegli anni inizia a soffrire  tempi difficili in patria, mentre è sempre più apprezzato in Europa.
Nel bel mezzo di una crisi di coppia Lenny comincia ad idealizzare la madre naturale dell’intelligentissimo bambino che ha adottato insieme alla moglie Amanda.
Le sequenze più riuscite del film sono tutte quelle con l’esile e impacciato Lenny  accanto alla statuaria e bramosa  Judy Orgasm mentre discutono e ironizzano su fallazio e dintorni.
E poi l’algida moglie gallerista che prende tutte le decisioni; i battibecchi col saggio Corifeo; il coltivatore di cipolle maschilista e represso che Lenny vuole rifilare come marito a Linda; il pappone Ricky  con cui alla fine si riesce a ragionare promettendogli i biglietti in prima fila per la partita dei Knicks. 

Woody Allen e Helena Bonham Carter in 'La dea dell'amore'

Anche volendo sorvolare sull’eccessiva superficialità di come è trattata l’adozione del bambino che assomiglia di più all’ acquisto di un cagnolino da salotto, la sceneggiatura è abbastanza monotona e risolta con un troppo facile e improvviso lieto fine generale.
La verve comica è spenta e le battute, la maggior parte sul sesso, sono abbastanza fiacche e deludenti.
Il solito matrimonio in crisi in cui il regista, di volta in volta, scava e rimescola alla ricerca dell’humus di coppia tra  meccanismi ricattatori, ipocrisie, vendette, dipendenze, tradimenti, assuefazioni al quotidiano.
In alcuni film giunge a rivelazioni ed analisi più profonde o come in questo caso  a risultati più macchiettistici.
L’attrattiva  si racchiude in due pensate eccentriche: l’assurda presenza del derisorio coro greco e  il personaggio della squillo stupidotta interpretato brillantemente da Mira Sorvino che ricalca  quello  dell’attrice Olive Neal nel precedente Pallottole su Broadway ruolo affidato a Jennifer Tilly che fu candidata al premio Oscar, mentre la Sorvino riuscì a vincerlo come miglior attrice non protagonista.

Woody Allen e Mira Sorvino in 'La dea dell'amore'

Il prototipo della bella svampita dalla vocetta stridula era già apparso nel 1984 in Broadway Danny Rose e impersonato da una sorprendente Mia Farrow, molto credibile anche in veste comica.
Allen così fa sparire per un po’ quelle figure tanto centrali nella sua cinematografia di donne positive, forti, complesse e sensibili  che molto spesso finiscono per mettere in ombra gli uomini.
Certo descrive anche personaggi femminili nevrotici, fragili, depressi, sull’orlo del suicidio ma pur sempre affascinanti, proiezioni della sua ex moglie Louise Lasser che ossessionò il regista per diverso tempo.
In Mighty Aphrodite aleggia una certa misoginia riflessa impietosamente su due madri.
C’è Amanda moglie arpia e traditrice che preferisce adottare un bambino perché non ha tempo da perdere in una gravidanza che andrebbe a bloccare la sua carriera in ascesa e Linda prostituta giuliva rimasta incinta, a causa di un preservativo bucato, che decide di abbandonare il suo bambino.
Figure femminili vuote e superficiali a cui il regista riserva solo brevi guizzi di positività.
In seguito anche in Celebrity sarà spietato nella descrizione di insignificanti divette  ninfomani e cocainomani.
Siamo ormai molto lontani dal volto della giovane Tracy di Mahnattan considerato uno dei motivi per cui vale la pena vivere.

Woody Allen e Helena Bonham Carter in 'La dea dell'amore'

Probabilmente la batosta del processo intentatogli da Mia Farrow avrà influito, producendo questa proiezione incupita dell’immagine femminile.
A completare questa visione negativa e avvilente si aggiunge lo squallido punto di vista di Kevin, mediocre pugile lobotomizzato, in cerca di una donna che cucini e pulisca casa senza fare troppe storie.
Stranamente Lenny si convince che sia l’uomo ideale per Linda.
Forse lo vede come una specie di perversa espiazione, per la vita sciagurata e promiscua della ragazza, perché di certo un tipo come Kevin potrebbe rendere felice al massimo una capra.
Per fortuna le divinità interverranno facendo arrivare, direttamente dal cielo, un marito molto più interessante per la nostra ex squillo-novella parrucchiera.
All’inizio degli anni novanta la produzione di Allen torna brevemente ad assumere toni più leggeri da Misterioso omicidio a Manhattan a  Tutti dicono I Love You per poi tornare all’introspezione con Deconstructing Harry.
Sarebbe più giusto dire che nella sua fitta filmografia ha alternato compulsivamente commedia e tragedia sull’orlo dello stillicidio.
In questo percorso bipolare ha sperimentato tutte le possibili variazioni e combinazioni, dal goliardico al raffinato o dal nostalgico al sentimentale.

Peter Weller e Helena Bonham Carter

Ogni tanto collocando a tradimento quella pellicola importante e inaspettata, solitamente un dramma, dove  addirittura si sveglia dall’inerzia tecnica regalandoci ricercatezza nell’inquadratura e qualche interessante movimento di macchina in alternativa al solito piano sequenza.
Un film di Woody Allen, nonostante tutto, va sempre visto anche solo per il gusto di poterne parlare male, per stabilire cosa va salvato, per fare il gioco dei rimandi ai suoi vecchi film o rimpiangerli fino a quando ci stupirà nuovamente con un nuovo colpo da maestro.