martedì 17 dicembre 2013

La fine del mondo #2: "Le dernier combat", di Luc Besson

Le dernier combat (1983) di Luc Besson

                                                                                                                                                       
Un mondo senza parole
di Maddalena Marinelli

Il Pianeta è stato raso al suolo da una catastrofe imprecisata.
In una distesa desertica i sopravvissuti sono in continuo stato di guerriglia per conquistarsi i pochi beni preziosi: cibo, acqua e le rarissime donne che vengono custodite/segregate sotto chiave.
Gli uomini non riescono più ad emettere parola a causa di un veleno diffuso nell’aria. Regrediscono ad uno stadio primitivo trasformandosi in belve violente, in scalcinati guerrieri tra medioevo ed età della pietra.
Un film che alterna  poesia, dolcezza, crudeltà e ironia in cui la parola è completamente assente. Tutto viene affidato all’immagine, alla colonna sonora di Eric Serra, ai volti intensi degli attori Pierre Jolivet, Jean Bouise, Fritz Wepper e naturalmente alla prorompente fisicità di Jean Reno che diventerà una presenza costante in tutti i film successivi di Besson.
Personaggi beckettiani rassegnati o in cerca di rivincita in un mondo  dove l’uomo sembra rimasto completamente solo e non esiste più un Dio da invocare.


Il protagonista della vicenda conserva ancora un barlume di speranza. Rispetto agli altri, che rassegnati si lasciano andare all’imbarbarimento, lui cerca di reagire. Non vuole dimenticare la sua umanità e sogna di riavere un giorno la sua voce.
La banda di disperati, che vive nelle macchine in mezzo al deserto, è ridotto ad un branco di lupi affamati. Una piccola tribù che s’inventa sadiche regole come quella di sostituire il denaro con dita mozzate.
Il dottore, ultimo emblema del sapere umano, si è barricato nella sua clinica e si consola disegnando graffiti e accudendo la bella donna che tiene prigioniera nel labirintico sotterraneo. Il bruto, con la sua ceca ferocia, rappresenta tristemente lo stadio finale di questa regressione morale e sociale.
Uno schema narrativo chiaro e conciso, grande suggestione delle locations che vengono raccontate con estrema cura per il dettaglio e con l’ausilio di piccole invenzioni. L’eccezionalità del film è quella di riuscire a rendere credibile e autetico un mondo post-apocalittico senza l’ausilio di  effetti speciali. Non mancano le scene d’azione, scandite dal jazz-rock di Eric Serra, in cui il 23enne Besson  dimostra già la sua grande padronanza di ripresa.


Scarno, realizzato con poche risorse economiche ma con una grande intensità visiva e ideologica. Il primo lungometraggio di Luc Besson. Sono già ben evidenti quei tratti tipici della sua regia energica, lucida e amara in cui si ripete il leitmotiv di protagonisti buoni che si ritrovano a compiere nefandezze imposte da un sistema carogna. Per ogni film Besson studia un involucro estetico molto accurato. Segue freddamente uno schema registico che scandisce le storie secondo i livelli dei video games per ristabilire un senso umano di realtà solo nel finale. L’inafferrabile Besson che salta da un progetto all’altro senza seguire una linea precisa. Si divide tra l’irresistibile piacere di curare solo la forma e l’esigenza di esprimere un contenuto.
Si diverte a fare un cinema più commerciale e ultimamente anche i film per ragazzi. Poi c’è l’altra versione di Besson, attualmente sparita, quella dei film più intimisti e autobiografici come Le Dernier Combat, Le grand bleu, Angel-A, Atlantis. 

(Saggio di Maddalena Marinelli tratto dal catalogo della rassegna Finimondi)