domenica 1 dicembre 2019

“PARASITE”, di Bong Joon-ho


MAD NEWS

PARASITE


La rivalsa degli esclusi
di Maddalena Marinelli

Cenciosi, furbi e cattivi. 
La famiglia Kim cerca di sopravvivere alla miseria.
Non si lascia sopraffare dalla disperazione o dall’illecito.
Con una sana dose di humor e di arguzia, i suoi quattro componenti perennemente disoccupati, se la cavano giorno dopo giorno nello squallore dei disastrati bassifondi di Seul, ammassati in uno stretto scantinato vista vicolo malfamato e maleodorante.
L’occasione di una svolta li farà assaporare la vita facile di coloro che si trovano in cima alla piramide sociale.
I Kim improvvisamente finiscono nel giardino dell’Eden insidiandosi, come dei parassiti, nella meravigliosa villa degli ingenui Park che, completamente ignari, inviteranno dei ‘vampiri’ ad entrare, ad oltrepassare la soglia del loro esclusivo eremo dorato.
Quando l’invasione sembra riuscita perfettamente e i quattro nullatenenti vanno ad occupare, attraverso una catena di inganni e nefandezze, ambiti posti da domestici nella ricca famiglia alto borghese, la casa rivelerà i suoi segreti rimettendo tutto in discussione.
Chi sono i veri intrusi?
Si arriverà ad un gioco al massacro senza più regole.

'Parasite' di Bong Joon-ho

Parasite è stato il vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes 2019, diventando il primo film sudcoreano ad aggiudicarsi il premio.
Inoltre rappresenterà la Corea del Sud nella categoria per il miglior film in lingua straniera ai premi Oscar 2020.
«La coabitazione tra persone di classi diverse può essere difficile. In un mondo che ha svuotato di senso l’idea delle relazioni umane basate sulla coesistenza, ogni classe sociale diviene parassitaria per le altre»
(Bong Joon-ho)
Questa volta il mostro non è una minaccia esterna come in The Host ma si tratta di una mostruosità interna, alimentata da frustazioni, vessazioni e disperata sopravvivenza.
Il fantascientifico di Snowpiercer viene accantonato per favorire una più attuale e asciutta analisi della condizione sociale, senza filtri action o l'ausilio di effetti speciali.
L'impianto teatrale. Molière, Goldoni e De Filippo. Il gioco delle parti, l’equivoco, la lotta tra classi sociali. 
Bong Joon-ho riprende gli stilemi dei personaggi della commedia dell’arte creando una black comedy  divertensissima ma dai forti toni drammatici e di denuncia sociale.
Il classismo nella Corea del Sud è fortemente radicato. 
Chi nasce povero, anche dimostrando volontà e doti intellettive, non ha alcuna possibilità di migliorare la sua condizione economica.
La demarcazione sociale è indissolubile. Il potere economico dell'intera Nazione è in mano alle poche dinastie agiate.

'Parasite' di Bong Joon-ho

In Parasite è pregnante quel saporaccio amaro delle crudissime, grottesche, geniali commedie di Monicelli e Scola incentrate sulle guerre tra poveri. Decadenza e vacuità dei ricchi; vite scalcinate alla ricerca di una rivalsa sociale che quasi sempre tragicamente fallisce o riesce ma lasciando inalterata la condizione d’infelicità dei protagonisti perché il prezzo da pagare, la perdita dell' integrità morale, si dimostra troppo lacerante.
Bong Joon-ho coniuga semplicità e complessità; dosa perfettamente i ritmi e le alternanze tra satira sociale, dramma, thriller con sfumature horror.

'Parasite' di Bong Joon-ho

La casa pulsa, fagocita, inganna; diventa protagonista come fosse un organismo vivente. Una meravigliosa creatura e allo stesso tempo un meccanismo infernale.
Viene anatomizzato ogni spazio, ogni interstizio diventa significante nel bene o nel male.
C’è un gioco continuo tra il sotto e il sopra, lindezza e putrescenza, salite e discese sia fisiche che metaforiche. 
Scambi di ruoli, scambi di odori, scambi di luoghi.
Il lieto fine, il sogno di una vita diversa che in una dimensione alternativa sembra così vivida da potersi avverare.
Il freddo risveglio nella crudezza del reale, in cui non può cambiare nulla.
Le distanze restano indissolubili, non possono essere colmate.
I confini tra poveri e ricchi vengono ristabiliti, il tentativo di fuga dalla povertà viene severamente punito.
Si ritorna ad occupare il proprio tassello. 
Le parti lese contano le proprie vittime e qualcun' altro ha occupato invisibili prigionie.

“Il capitalismo è un’ingiusta ripartizione della ricchezza. Il comunismo è una giusta distribuzione della miseria.” (Winston Churchill)

domenica 13 ottobre 2019

JOKER, di Todd Phillips


MAD NEWS

JOKER 


Nascita di un criminale psicopatico truccato da clown
di Maddalena Marinelli

Arthur corre.
Ogni volta corre più forte e più lontano che può.
E’ in perenne fuga da ragazzi che lo vogliono picchiare solo per divertimento, da poliziotti che lo vogliono arrestare, da inservienti che lo vogliono rinchiudere in una cella imbottita.
Arthur Fleck, soprattutto, vorrebbe fuggire dalla sua amara esistenza di outsider che si ripete giorno dopo giorno con la solita avvilente routine in una sordida e cinica città.
Si muove mestamente alla ricerca di uno spiraglio d’amore che gli viene ripetutamente negato con disprezzo. 
Perché Arthur  è malato, considerato ‘strano’ per via di un disturbo neurologico: improvvisi e incotrollabili attacchi di risate che arrivano nei momenti meno opportuni, causandogli un forte disagio e un inevitabile isolamento.

"Joker" di Todd Phillips

Paradossalmente il suo desiderio è quello di diventare un ‘stand-up comedian’ per rallegrare la gente ma il suo stato di drepressione cronica e l’inefficacia delle sue battute, rendono questo sogno irraggiungibile e quando trova il coraggio per esibirsi ottiene solo derisione.
Deluso da quelle poche persone su cui faceva affidamento, abbandonato dai servizi sociali, senza più farmaci, l'uomo si sente completamente perso, senza più un’ identità.
Disfatta su disfatta Arthur discende in un profondo baratro senza più ritorno. Abbraccia la follia e nel crimine trova se stesso.
“Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto e le persone iniziano a notarlo.”
Così la trasformazione, l’ascesa di Joker sarà compiuta.
Adesso quell’inquietante risata incontrollabile, strozzata dalla sofferenza, motivo di così tanto imbarazzo, diventerà voluta ed elevata ad emblema del neo villain. Accettazione piena della sua malvagità.

Joaquin Phoenix in "Joker" di Todd Phillips

Una possibile storia sulle origini del celebre “clown prince of crime” estraniato dal fumetto.
“Se proprio devo avere un passato, preferisco avere più opzioni possibili!” (Joker in “The Killing Joke”)
Una visione inedita, crudamente realista, cupa, introspettiva sugli eventi che hanno determinato la nascita di uno dei cattivi più famosi ed amati dell’universo DC Comics.
In questa straordinaria versione di Todd Phillips il cinecomics si spoglia totalmente dei suoi ammalianti effetti speciali e dei suoi inflazionati stilemi confezionati per compiacere il pubblico generalista, diventando film d'autore, denuncia sociale e politica, avvicinandosi molto alle tematiche del recente Noi di Jordan Peele in cui avviene, in chiave horror, una rivolta degli emarginati che vogliono prendere il posto degli agiati.
Nonostante l’ambientazione anni Ottanta, ritroviamo quell’odierno divario tra classi sociali, l’aridità nei rapporti umani, il nichilismo, l’indifferenza e la derisione nei confronti del disagio mentale.
Nella figura di Thomas Wayne, il miliardario padre di Bruce (futuro Batman) che mira ad una carica politica, c’è un chiaro richiamo all’ascesa di Donald Trump.

Joaquin Phoenix in "Joker" di Todd Phillips

Phillips costruisce il suo film omaggiando memorabili opere scorsesiane come Re per una notte e Taxi Driver. 
Attraverso un gioco di specchi, trasporta dentro lo stesso Robert De Niro che interpreta un possibile Pupkin 2.0, qui chiamato Murray Franklin, che dopo le vicende di Re per una notte è riuscito a realizzare il suo sogno di passare dalla parte dei vincenti, affermandosi come star televisiva di un programma comico di successo.
In Arthur Fleck si riflettono sia Rupert Pupkin che Travis Bickle entrambi reietti in cerca di un riscatto sociale che otterranno attraverso azioni illecite. Atti violenti che invece di essere puniti li trasformeranno in celebrità, proprio come accadrà a Joker osannato dagli abitanti di Ghotam come un eroe.
Arthur non diventa un temibile villain per via di un bagno d’acido o di qualche strano intruglio chimico ma è il prodotto di una società corrotta e demotivata in cui non esiste più alcun istinto di benevolenza per il prossimo. 

Joaquin Phoenix nel film "Joker" di Todd Phillips

Joker è la malattia di Arthur che arriva al punto di rottura; si libera gioendo del caos. Diventa un folle giustiziere innescando un movimento di rivolta.
Attraverso il medium televisivo dilagherà come un’ epidemia.
Un film che riesce abilmente ad attraversare diversi generi: dramma, thriller, horror, commedia.
Non manca nemmeno l’azione evocando Il braccio violento della legge nelle scene di inseguimenti per le strade e in metropolitana.
Molti gli omaggi e  le citazioni che Phillips fa a grandi cineasti e film cult della New Hollywood.
A proposito di Friedkin, quella ripida e tetra scalinata sembra proprio la stessa che compare in L’esorcista
Inizialmente vediamo Arthur salirla con fatica e avvilimento,  poi alla fine  Joker scenderla con leggiadria, esibendosi nella sua meravigliosa danza della follia.
La regia riesce a calarci completamente in un atmosfera di angoscia, tensione e ambiguità. 
Perchè l'enigmaticità, la scelta multipla, sottolinea l'imprevedibilità del folle e strizza l'occhio alle vicende fumettistiche di Joker che Phillips non dimentica mai, pur trasportando tutto in un contesto realistico.
Inquadrature basse, carrellate, primissimi piani. 
Una potenza visiva che fa male, ci cattura, ci scarica addosso tutta quella terribile disperazione di Arthur che diventa  la tua e di tutti.
La violenza è sempre pronta ad esplodere ma non sappiamo mai quando.

"Joker" di Todd Phillips

Impossibile non entrare in empatia con Joaquin Phoenix, un grande interprete che di questo film è fulcro assoluto.
Un attore che ha già ampiamente dimostrato il suo potenziale ma questo sembra essere il ruolo che aspettava da una vita.
Mette tutto se stesso nel rendere 'quest’anima malsana', trascinandoci nel suo abisso psicologico non solo attraverso la parola ma soprattutto con un complesso e meraviglioso lavoro sul corpo che al cinema raramente si può ammirare.
Phoenix riduce il suo fisico ad un mucchio d’ossa contorte e sofferenti.
Esprime magnificamente tutto l’impaccio, l’affflizione, la solitudine, l’anomalia di Arthur e poi la spavalderia, l’egocentrismo, il sadismo di Joker.
Nel suo sguardo si alternano fragilità, rabbia e follia.
Prevale una costruzione realistica ma inserisce anche dei tocchi cartooneschi.
La risata patologia e convulsiva sembra provenire da una perversità assopita nel profondo della sua psiche ormai pronta a prendere il sopravvento.
Il corpo si abbandona alla danza progressivamente sempre più impavida, anch’essa espressione di una follia incontenibile.


"...Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto;
in una smorfia il singhiozzo e 'l dolor...
Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto!
Ridi del duol che t'avvelena il cor!..."
('Vesti la giubba'; dall'opera 'Pagliacci' di Ruggero Leoncavallo, 1892)


"Joker" di Todd Phillips

Non si può più scappare. Il mostro è la punizione ad un sistema privo di valori.  
                                              
Come fare ad evitare che tutti gli Arthur Fleck diventino Joker?
Forse il mondo se lo merita Joker.





domenica 15 settembre 2019

LA FINE DEL MONDO #7: Le realtà alternative di Hereditary e Midsommar


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Incubi e nevrosi dell’era contemporanea
di Maddalena Marinelli


“Volenti o nolenti l’abbandono ci introduce, dal primo momento in cui lo subiamo, in una terra desolata che non conoscevamo, ci fa ascoltare un timbro inedito della disperazione e della fatica dell’esistere e del desiderare.” (Emanuele Trevi)

Il rifiuto della maternità, la codipendenza, l’elaborazione di un lutto.
Quel vuoto d’amore da colmare; un’apocalisse affettiva che scava e annichilisce dentro di noi.
Sappiamo davvero chi siamo?
C’è un limite a quello che si può sopportare e una volta superato, cosa siamo capaci di fare?
Odio, rancore, rabbia possono affiorare improvvisamente, senza più nessun controllo.
Il teatro dell’orrore come metafora catartica delle complesse dinamiche dei rapporti umani.
Ari Aster, partendo da un suo vissuto personale, trasmuta in ‘horror movie’ emozioni, scelte, conseguenze che l'essere umano deve affrontare a causa del dolore per un abbandono. 
Esplode la 'dysfunctional family'.
Come in Lanthimos la famiglia non rappresenta un posto sicuro dove trovare accoglienza o sostegno ma è un piccolo inferno perverso; un regno del male che genera distorsioni.
Come in Eggers il nucleo familiare diventa un terreno di guerra in cui non esiste coesione. Ognuno pensa a se stesso, ci si accusa reciprocamente fino al disfacimento.

"Hereditary" (2018) di Ari Aster

In Hereditary i segreti di una famiglia, l’incomunicabilità, l’indesiderata maternità, la perdita innaturale di un figlio, sfociano nella realtà alternativa della setta satanica adoratrice del demone Re Paimon che attende un corpo umano maschile da possedere per essere attivo nel nostro mondo e convertirlo al male.
Una maledizione che segna l’esistenza di una dinastia prescelta, perseguitata da patti demoniaci, morti violente, malattia mentale.
Un male che esorta a farlo entrare o a farlo uscire?
Un male che vuole impossessarsi del nostro corpo umano oppure è già dentro di noi nascosto da molto tempo?

"Midsommar" (2019) di Ari Aster

In Midsommar un insostenibile lutto, un rapporto di coppia ormai logorato,  l' insana dipendenza tra due persone si riversa in Hårga, un immaginario e misterico villaggio della Svezia settentrionale dove si vive a stretto contatto con la natura e la collettività, seguendo arcaiche tradizioni e riti pagani che prevedono senicidio, torture come quella dell’aquila di sangue, riti orgiastici di fertilità e per finire sacrifici umani.
Un mondo difforme in cui azioni considerate proibite e malvagie sono consentite, anzi sono sacre e servono a preservare il bene comune.
In questa ‘fantasia orrorifica’, nel tempio sacrificale avviene la ricerca di una purificazione, di una via d’uscita dalla sofferenza.
La liberazione da rapporti affettivi malati.
Morte o Rinascita? Questo è il filo conduttore del cinema di Ari Aster il nuovo astro nascente, insieme a Jordan Peele e Robert Eggers di un genere horror riportato ad una dimensione e ad una analisi più complessa e stratificata.


Dakota Johnson in "Suspiria" (2018) di Luca Guadagnino

Quest’anno ha dato un grande contributo ed ispirazione, in tal senso, anche il Suspiria di Guadagnino; una grande danza che trasuda speciali umori, un’opera caleindoscopica con molte chiavi di lettura, dove perdersi e ritrovarsi in tutte le mostruosità del passato e del presente.
Le streghe del ‘nuovo’ Suspiria nascondono un' essenza complessa; assumono una posizione politica, migrano in corpi, producono arte, non rappresentano necessariamente il male ma un moto di trasmutazione verso un mondo in cui ciclicamente si alternano creazione e distruzione.
Il bene e il male non occupano mai posti ben definiti ma si sovrappongono, ci ingannano, ci cambiano, mettendo a dura prova il nostro libero arbitrio.
Qualcosa di nuovo si fa strada. Ed ecco l’horror che si eleva a ben oltre il solito  jump scare per farci semplicemente paura o disgustarci con lo splatter.

"L'horror non è solo 'er film de paura', ma una costruzione visuale e visionaria" 
(Michele Soavi)

"Midsommar" di Ari Aster

Ari Aster scende nel nostro vero profondo orrore che diventa un  monito del nostro vivere quotidiano.
Adotta una regia totalmente immersiva in cui trascinare lo spettatore e farlo entrare visceralmente nella vicenda, nell’ atmosfera perturbante che ci rimane addosso anche dopo la fine del film.
Un giovane regista carico di idee, colto ed esteta; amante del dettaglio significante e feticista, delle simbologie, delle piccole inpercettibili sfumature, del disturbante grottesco.
I suoi riferimenti sono molteplici. Nel cuore c’è Bergman al secondo posto Kubrick ma anche Jodorowsky, Polanski e Argento.
Le sue citazioni passano veloci e velate ma assolutamente precise e contestualizzate.
C’è tecnica, padronanza e personalità registica che va oltre il genere trattato.
Un autore col grande talento di riuscire ogni volta a compiere il piccolo miracolo di far precipitare lo spettatore nel buco nero del suo/nostro regno oscuro, creando un fantastico trip collettivo.


"Hereditary" (2018) di Ari Aster

Entriamo nella lugubre casa di Hereditary inalando tutta la sua mestizia. 
Osserviamo le sinistre dinamiche della famiglia Graham. 
Li seguiamo nelle loro azioni quotidiane che si consumano nel solipsismo e in alcune strambe abitudini.
Varchiamo la porta di tutte le oscure stanze che si susseguono, per scovare, in ogni angolo, in ogni minuzia, i macabri segreti che hanno segnato e manipolato la vita di ogni personaggio/fantoccio.
Ci espandiamo nella luce di Midsommar in cui l'orrore e la violenza non si nascondono nell'oscurità ma si compiono in spazi aperti, alla luce del sole per concludersi nel dissolvimento etereo del fuoco che devasta, annienta e depura per aprirsi ad una nuova dimensione di se stessi.


sabato 13 luglio 2019

INGMAR BERGMAN: L'uomo e le sue stanze oscure



Persona o Anima?
di Maddalena Marinelli


Il regista dei turbamenti esistenziali che insinua e non risolve lasciando questa materia detonante sospesa tra due fulcri.
Da una parte il senso della vita retto sulla preservazione dell’amore.
Dall’altra parte la perdita del significato che apre il vuoto dell’anima e alimenta la disperazione, l’impossibilità di controllare gli eventi, l’afflizione per il sogno infranto dalla realtà.

"Luci d' Inverno" (1963) di Ingmar Bergman

Un susseguirsi incalzante di sofferti legami di famiglia, ricerca del divino, crisi artistiche, continue nascite e morti che costellano le storie dei suoi film.
Il cinema di Bergman non dà tregua è un grande affresco cinematografico di tutte le angosce, le paure e i vuoti spirituali dell’uomo del ventesimo secolo.
Oggi riesaminando i suoi film sembra di veder scorrere l’enciclopedia del cinema tanto è stata la sua influenza sulle generazioni successive di cineasti.
Senza allievi in patria ma con tanti sparsi nel mondo. Ha indicato nuove vie.
Allo stesso tempo ci si rende conto dell’assoluta mancanza di empatia con lo spettatore e del suo raggelante distacco col pubblico.
Cinema bellissimo, intenso ma intoccabile e solipsista.
Mantiene le distanze,  l’accesso totale è riservato esclusivamente al suo autore.
Come un bambino viziato Bergman si tiene stretto il suo bel gioco della lanterna magica tutto per sé. 

"Come in uno specchio" (1961) di Ingmar Bergman

In una fusione tra arte e vita era stato risucchiato dalla sua creazione artistica attingendo soggetti per i film dalle sue esperienze personali e vivendo permanentemente dentro un set sull’isola di Faro (isola Bergman) che aveva trasformato nel suo microcosmo familiare/lavorativo: "In realtà, io vivo sempre nel mio sogno, e ogni tanto faccio una visita alla realtà" scrisse nella sua autobiografia Lanterna Magica del 1997.
Un cinema debordante di parola perchè Bergman prima di tutto è drammaturgo, predicatore di parabole umane visceralmente legato al teatro ma anche grande e raffinato scandagliatore del linguaggio cinematografico nonchè sostenitore di quello televisivo.
Col teatro l’affinità elettiva: “Continuerò a lavorare con il teatro finchè saranno obbligati a farmi uscire con i piedi davanti e la testa dietro”.
Il cinema come veicolo su cui possono viaggiare ed essere divulgati i sogni, le visioni, le idee.
La televisione un mezzo penetrante da studiare e con cui tentare nuovi esperimenti.
Nell’arco di più di quarant’anni di carriera un avvicendarsi di mogli, figli, esaurimenti nervosi, problemi fiscali, crisi creative e isolamenti.

"Sinfonia d' Autunno" (1978) di Ingmar Bergman

Nel mentre nascevano, uno dopo l’altro, anche i suoi capolavori come Il settimo sigillo e Il posto delle fragole tra quelli rimasti impressi nella memoria collettiva.
La trilogia del silenzio di Dio formata da Come in uno specchio, Luci d’inverno e Il silenzio. La sperimentazione, il gusto dell’immagine, il film sul film, la lotta interiore tra l’essere e l’apparire ma anche premonizione sull’era dell’incominicabilità in Persona, considerato dallo stesso Bergman il punto massimo a cui poteva arrivare.
Le allucinazioni e il viaggio nell’inconscio in L’ora del lupo che sfiora il genere horror.
La crisi di coppia, il rapporto tra i due sessi nel verbosissimo e interminabile dialogo di Scene da un matrimonio.

"Fanny e Alexander" (1982) di Ingmar Bergman

I sofferti legami di sangue tra madre e figlia in Sinfonia d’Autunno o l’immersione nei ricordi d’infanzia in Fanny e Alexander tra figure reali e ideali della sua vita.
I personaggi sono fantasmi della memoria. La casa di Alexander è la ricostruzione minuziosa della villa di Uppsala dove Bergman trascorse la fanciullezza. Il film in cui immortala più chiaramente l’austera figura paterna che gli creò turbamenti e sofferenze per tutta la vita.

"Il settimo sigillo" (1957) di Ingmar Bergman


“Film come sogni, film come musica. Nessun'arte passa la nostra coscienza come il cinema, che va diretto alle nostre sensazioni, fino nel profondo, nelle stanze scure della nostra anima.” ( Ingmar Bergman)

lunedì 6 maggio 2019

LO SPECCHIO: Il confronto con la metà oscura


L’altrove dell’essere riflesso
di Maddalena Marinelli


Lo specchio è un eccelente evocatore di immagini, lo stargate ideale per entrare in un universo retto da leggi arcane e imprevedibili.
Permette di alterare la normale percezione delle cose provocando quel nostro bisogno oscuro e insistente di 'vedere oltre', perché la limitata sfera del reale non può bastare a fornire risposte esaurienti a tutte le domande.
Lo specchio rassicurante o inquietante? Alleato o nemico? Rivelatore di verità o  del peggiore inganno?
Così quella barriera solida di vetro e metallo si dissolve in perforabile liquido; oltrapassandola s’intraprende un viaggio iniziatico.
Specchio delle mie brame è in te che si nascondono tutte le paure del reame?
Tra mito, favola, leggenda e superstizione le vicende che  lo rendono protagonista sono numerose.
Narciso ne viene ingannato innamorandosi di una creatura inesistente perché non ha la consapevolezza del sé.
Dioniso scopre la dualità dell’io e spaventato lo rompe prima di essere sbranato dai Titani; per Perseo è l’indispensabile alleato con cui distruggere il mostro Medusa.

Illustrazione di John Tenniel per 'Attraverso lo specchio" (1870)

Alice lo attraversa ritrovandosi in un’altra dimensione solo apparentemente simile alla realtà dove continuano le sue avventure nel Paese delle meraviglie.
La strega di Biancaneve lo interroga come un oracolo per avere conferme sulla sua bellezza e sul suo potere.
Archimede lo avrebbe usato addirittura come congegno bellico (specchi ustori) per bruciare le navi romane nell’assedio di Siracusa.
L’Imperatore Giallo dopo lunghe battaglie, scacciò la gente dello specchio che voleva invadere la terra e li condannò a ripetere tutti gli atti degli uomini.
Nel caso servisse è un valido aiuto per smascherare i vampiri e va coperto se avete un morto in casa altrimenti la sua anima potrebbe finirci intrappolata per sempre. 
L’unica cosa proprio da evitare è romperlo, sette anni di disgrazie sono lunghi a passare.

Claude Monet, "Ninfee"1907, Houston, Museum of Fine Arts

Lo specchio 'limbo etereo' apre all’artista la visione dell’alterità e di conseguenza regala allo spettatore dell’opera un inaspettato e spiazzante mutamento di prospettiva sul mondo.
Non è solo un semplice duplicatore ma un 'disvelatore'. Ed è da questo concetto che l’artista è veramente attratto, inoltrandosi nei percorsi della psiche.
Sempre meno specchio di me e sempre più 'altro'.
Il ritorno del rimosso, il desiderio della sua materializzazione.
Aldilà di quella lastra c’è l’ignoto e il pericolo è quello di perdere i confini tra ciò che si ritiene reale e l’irrealtà,  scivolando giù come Narciso.
L’arte è la perfetta esploratrice di questo polo sconosciuto, riesce a dare un’immagine a questa zona d’ombra nell’uomo, permettendo così un confronto meno traumatico con essa.
Monet negli ultimi anni della sua vita ritraeva ossessivamente il riflesso delle ninfee nelle acque dello stagno, come se quello fosse diventato un qualcosa di perduto e inafferrabile del suo passato, delle sue passioni.
L’artista arrivò fino alla follia tentando il suicidio per annegamento.

Edward Burne Jones, "The mirror of Venus", 1875, Lisbona, Museo Calouste Gulbenkian

Nelle opere dei Preraffaelliti l’ebbrezza crudele e spietata della femme fatale di Simbolisti come Moreau, Beardsley o Franz von Stuck , si spegne nella languida figura di fanciulle eteree e glaciali che si specchiano nelle acque.
Vagano con lo sguardo nel vuoto, perdute per sempre nel loro mondo interiore, indifferenti allo scorrere del tempo e al luogo che le ospita.

Giacomo Balla, "Nello specchio", 1902, Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna

Giacomo Balla in Nello specchio si ritrae al centro della composizione con la tavolozza in mano, insieme al letterato Max Vanzi e ai coniugi Prini.
Il gruppo di amici sembra essere in uno stato di agitazione, investito da una specie di vento dalla sconosciuta provenienza e Balla strizza gli occhi come per vedere meglio qualcosa davanti a lui: ha uno sguardo incuriosito e indagatore.
Chissà cosa gli è apparso oltre lo specchio.
Come direbbe Paolini, forse gli siamo apparsi noi spettatori.

Alighiero Boetti, "Specchio cieco"1975, NewYork, collezione Gianfranco Gorgoni
Opera realizzata da Alighiero Boetti a partire da una foto scattata da Gianfranco Gorgoni

Il tema del doppio, quell’entità mancante è stata una costante nel lavoro di Alighiero Boetti o meglio come lui, non a caso, si era ribattezzato Alighiero e Boetti.
Specchio cieco non è un autoscatto ma una foto fatta a Boetti dal fotografo Gianfranco Gorgoni in cui l’artista è davanti ad uno specchio con gli occhi chiusi, in rapporto con se stesso o con il regno dell’arte per riceverne ispirazione.
La realtà si azzittisce ed è la mente a guidare.
Ci esorta a sprofondare in noi stessi nella contemplazione, rifiutare la vita quotidiana e ricercare le verità interiori ascoltando la voce dell’anima.
Lo specchio è il (non)luogo ideale dove si materializza “il doppio” assopito in ogni individuo, l’alter ego inconscio.
All’improvviso non riconoscersi più nel riflesso, perdere il confine.

'Persona' (1966) di Ingmar Bergman

Nel film Persona l’infermiera Alma che dovrebbe assistere l’attrice Elisabeth Vogler chiusa nel suo mutismo, vede lentamente svanire la sua identità, infine annullandosi del tutto e identificandosi con l’attrice.
Il regista Ingmar Bergman mostra le due donne davanti allo specchio, mentre i loro volti si confondono. Il film stesso è uno specchio; l’Io, l’anima, l’inconscio delle protagoniste ma anche, per forza di ciascun spettatore.
La metà oscura cerca una via d’uscita per liberarsi e rivelarsi.

'Il cigno nero" (2010) di Darren Aronofsky

Nina Sayers, nel film Il cigno nero, è una talentuosa ballerina intrappolata in una fragilità psicologica causata da un rapporto morboso con la madre che la considera e la tratta ancora come ‘la sua bambina’ da accudire e dominare.
La ragazza, messa sottopressione a causa del conseguimento del ruolo di protagonista nel celebre balletto Il lago dei cigni, inizia a perdersi nel suo lato oscuro che in scena si materializza proprio nel cigno nero.
L'espressione immediata di ogni impulso. Il risveglio dello ‘spirito malvagio’ che avvera i desideri repressi ed esorcizza le paure. 
Specchiandosi vede, più volte, apparire la sua gemella malvagia nascosta nel suo inconscio/altrove che cerca di prendere il sopravvento fino a ditruggere la parte in luce.
Nina scoprirà tragicamente che non esiste nessuna rivale tra le sue collega ma che la sua unica nemica è se stessa.
Che cosa accadrebbe se una mattina non ci riconoscessimo più nell’immagine allo specchio?
Un mondo in cui non potremmo più fidarci degli specchi.
Nell’infanzia avevo paura di entrare al buio nella camera di mia nonna, perché il mio terrore era quello di vedere riflessa, nei grandi specchi dell’armadio, un’altra immagine invece della mia, anche perché il mondo dall’altra parte dello specchio è associato quasi sempre al male, al demoniaco.

'Noi' (2019) di Jordan Peele

La paura di scoprire il male fuori o dentro di noi?
Sembra proprio che nello specchio-cantina del rimosso, l’uomo vada a riversare tutto quello che non può avere un posto nella realtà come i sosia del film US.
Duplicati degli esseri umani, riprodotti in laboratorio per qualche scopo e poi abbandonati nel sottosuolo. Condannati a vivere un' esistenza incatenata al riflesso dei loro originali.
Per Jordan Peele è anche metafora politica sul conflitto di classe e la disparità sociale. Ribaltare il sistema. Il diverso, il recluso, l’oppresso che cerca la sua affermazione.
Dentro e fuori di 'noi'. L’incubo di un doppio che non è più qualcosa di astratto.
L’ombra si materializza in carne ed ossa e ha deciso di prendere il nostro posto nel mondo.
Quel buio oltre lo specchio oltrepassa il confine per  invadere e prendere il dominio.
I mondi si scambiano, le identità si annullano, i dominatori diventano dominati. 
Adesso dove siamo e chi siamo?