lunedì 28 gennaio 2019

IL CORPO #2: Joel Peter Witkin. Il demiurgo di inferni terreni





Quell’insano lirismo della carne
Di Maddalena Marinelli

Il mondo di Witkin è come quello spazio interstiziale sporco e dimenticato nascosto tra normali pareti domestiche.
Tutto inizia da una bella e linda carta da parati leggermente scollata; poi si scopre una fessura, lo spiraglio diventa sempre più grande ed ecco ‘l’altra stanza’ col suo odore marcente che ti penetra nelle narici, con i suoi perversi segreti e le sue terrorizzanti storie inascoltate. L’irruzione del diverso.
“La fotografia è una mannaia che coglie nell'eternità l'istante che l'ha abbagliata.”
(Henri Cartier-Bresson, Il momento decisivo, 1952)
Un effluvio di morte, di carne e di fiori avvizziti. Una lama affilata che taglia e rincolla i pezzi ricreando nuove narrazioni secondo lo stato d’animo del sogno.
Sessualità e violenza si uniscono.
Carrucole, corde, cinghie, pungoli, fruste, lattice, bende, maschere per attività parafiliache mostrate nel loro compiersi da persone che provano normalmente piacere infilandosi aghi nello scroto e ganci nei capezzoli.
Non sono futuri tormenti infernali ma supplizi quotidiani.
Gli inquietanti abitatori di queste stanze nascoste sono gli esemplari di una nuova bellezza. I protagonisti di un perverso burlesque portato all’estremo.
Nelle mani dell’artista il deforme diventa armonico e il nostro sguardo bulimico, tra attrazione e repulsione, non può far altro che nutrirsi avidamente di tali immagini per poi rigettarle chiedendo a noi stessi l’origine di questa morbosa seduzione visiva.
La forma mentis di Joel Peter Witkin  inizia con un macabro episodio legato all’ infanzia. Da bambino fu testimone di un tragico incidente d’auto avvenuto davanti alla sua abitazione in cui rimase decapitata una bambina. Quella testa recisa ritornerà spesso nel suo immaginario visivo.
Vede le fotografie della Grande Depressione, quelle dei campi di concentramento pubblicate su Life, quelle di Eugene Smith al ritorno dal Giappone post-atomico. All’inzio della sua carriera accetta di partire per il Vietnam come fotografo di guerra trovandosi a documentare i suicidi e le morti accidentali in servizio.
E’ il dramma, il sangue, la ferocia del Novecento che s’imprimono nei suoi occhi per riversarsi in creazione artistica.
La sua ricerca si concentra sul tema della morte, sull’anomalia fisica per poi arrivare alle rivisitazioni irriverenti di famose opere di Goya, Velazquez, Picasso, Max Ernst, Bosch, Caravaggio, Botticelli, Salvador Dalì, Beato Angelico, Rembrandt, ribaltandone l’intera iconologia con l’aggiunta di riferimenti all’attualità sociale e politica.
Molto tempo è impiegato per l’elaborazione dell’idea, la composizione spaziale e lo studio dei riferimenti simbolici. I suoi set durano mesi, iniziano da disegni preparatori per poi passare alla costruzione tridimensionale fino allo scatto vero e proprio.
Sono creazioni scenografiche studiate nei minimi dettagli, tableaux vivants con richiami mitologici, teatrini della crudeltà sadomaso. I suoi modelli, fuori dalla norma, vengono ingaggiati in incontri fortuiti o tramite inserzioni.
Carne ferita e torturata. Tutto passa attraverso la sofferenza. Un continuo martirio del corpo per trovare uno stato d’estasi seguendo proprie leggi.
Il lavoro procede in camera oscura dove Witkin da fotografo diventa un pittore informale. Interviene manualmente con graffi, colore, lacerazioni, bruciature, candeggina, prodotti chimici, collage, distorsioni tra il supporto e l’ingranditore.
Le sue celebri Still lifes con membra umane, corpi mutilati magnificati come statue classiche, ermafroditi come veneri in Gods of Earth and Heaven (1988), obesi, nani, gigantesse.
In questo inno all’ Elephant Man c’è ironia ma anche una continua insistenza sulla caducità e la fragilità del corpo umano.
Woman once a Bird del 1990, richiamo all’opera Le violon d’Ingres (1924) di Man Ray a sua volta caustica citazione dell’opera La bagnante di Valpinçon (1808) di Ingres. Tre concezioni molto diverse dell’arte nell’evolversi dei tempi. La versione di Witkin è quella di un corpo femminile seduto di spalle stretto in vita da un inconcepibile bustino di metallo. Una punizione.
Sulla schiena due profonde lacerazioni come traccia rimasta di ali strappate via.
Ogni artista  è alla ricerca di quelle ali perdute per riuscire a riconsegnarle all’uomo.
Un’ossessione per la morte e il decadimento che la nostra società rifiuta propinandoci elisir di lunga vita, corpi perfetti, interventi chirurgici che rimpolpano carni flaccide. Invece Witkin vuole rapportare lo spettatore con quell’aspetto più terrifico e sacrilego in cui riecheggia assordante l’ammonimento del memento mori.  
Utilizza cadaveri non reclamati presi negli obitori messicani, li scompone e ricompone nel suo studio in sfarzose nature morte. Nobilitazione o nefandezza?
Teste decollate poggiate su piatti, braccia e gambe amputate assemblate con fiori e oggetti secondo precise composizioni. Feti, organi sessuali, ossa, corpi ricuciti.
Una variazione, anzi meglio, una sovversione  delle fotografie post mortem che si diffusero in epoca vittoriana per avere un ricordo del defunto in cui l’usanza più inquietante era posizionare il cadavere come se fosse ancora vivo, con gli occhi aperti e simulando qualche attività quotidiana.
Così si prova ad ingannare la morte strappando, anche all’ormai defunto, quell’ultima immagine di vita eternamente sospesa.

martedì 1 gennaio 2019

VAN GOGH - AT ETERNITY'S GATE, di Julian Schnabel


                                                    MAD NEWS

Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità in sala dal 3 Gennaio 2019


La discesa infinita
di Maddalena Marinelli

Dall’uomo al vero uomo, la strada passa per l’uomo pazzo” (Michel Foucault)

Vincent, un uomo dalla sensibilità esasperata e dall’angoscioso desiderio d’amore.
Pazzo?..Sicuramente incompreso, deriso, reietto dalla società.
Il diverso che fa paura; portatore di disorientamento dall’ordinario vivere quotidiano.
Un uomo dall’aspetto inquietante e sgradevole.
Alcolizzato, accanito fumatore; un sudicio dai denti guasti.
Difficile entrare in contatto con lui. Difficile capirlo. Difficile amarlo.
Votato completamente alla pittura per cogliere ed esprimere la sua verità sulle pulsioni vitali della natura e l’essenza, il dramma dell’essere umano.
Il suo furor creativo. 
Una pittura immediata, mutevole, dai tratti e colori violenti, piena di pathos che non piaceva non solo alla gente comune ma nemmeno a molti artisti dell’epoca tra cui Cezanne che non capì mai la grandezza di Van Gogh.
Un’esistenza piena d’amore e dedizione per l’arte ma segnata dalla sofferenza, dalla frustrazione e dal malessere mentale.
Costantemente deluso dall’insuccesso, dall’amore, dalle amicizie; si sentiva l’ultimo degli ultimi, una nullità.
Unico appiglio il rapporto indissolubile col fratello Theo e il suo costante sostegno economico che gli garantiva di poter continuare a preoccuparsi unicamente della ricerca artistica.
Theo amava profondamente Vincent. 
Nonostante le loro diversità si sentiva legato a lui da un destino similare e dalla responsabilità di prendersene cura.
Inoltre era l’unico a comprendere, a credere ed amare la sua arte.
Vincent desiderava una vita normale. L’amore. Una donna da sposare, una famiglia ma allo stesso tempo questo rappresentava un intralcio per il suo rapporto totalizzante con l’arte.
Un esule fuori dal mondo ma allo stesso tempo visceralmente dentro la realtà.

Willem Dafoe in 'At Eternity's Gate' di J. Schnabel

"Io dipingo per non pensare" (V. Van Gogh)
Impulsivo ed estremo, fino all’autolesionismo nella famosa “performance” del lembo d’orecchio reciso e recapitato alla sua prostituta preferita dicendole: ‘Conservalo con cura, così ti ricorderai di me’.
Fattore scatenante la delusione, la rabbia, l’impotenza  di fronte all’abbandono subito da parte dell’amico Gauguin.
Ecco, questo è un mio brandello di carne, questo è il mio sangue. Io esisto. Io soffro. Io non voglio essere abbandonato. Voglio essere ricordato. Voglio essere amato.
Dopo questo episodio la gente del paese si convinse della sua pazzia e fu internato per un lungo periodo.
L’arte è l’uomo sommato alla natura” (V. Van Gogh)
Il suo rapporto con la natura è totale, immersivo, allo stesso tempo confortante e straziante.
Incurante del caldo e del freddo passava intere giornate in campi di grano, boschi e sulla riva del fiume.
Madre natura da cui prima imparare e poi trarre ispirazione.
Che sussurra, svela agli occhi e al cuore ma soprattutto non giudica.

Willem Dafoe in 'At Eternity's Gate' di J. Schnabel

Nel suo silenzio contemplativo Vincent si sente libero e lontano da quella società che lo addita e lo reprime. Può essere se stesso, finalmente capace di esprimersi senza impedimenti. Così matura il suo atto di autentica creazione.
Sappiamo che Julian Schnabel prima di essere regista è lui stesso artista ed è sempre da tale prospettiva che ha raccontato l’esistenza e l’atto creativo di Basquiat, Reinaldo Arenas e adesso in At Eternity's Gate di Van Gogh.
Schnabel cerca di portare  al pubblico ‘il punto di vista’ di Vincent; di come lui vedeva il mondo e l’arte.
Lo seguiamo nel movimento della mano mentre realizza i suoi disegni ad inchiostro di china. 
Il suo conflitto con la società dell’epoca, le quotidiane derisioni inflitte dalla gente di Arles cattiva, meschina e ignorante, che non lo voleva.
Percepiamo tutta la sua solitudine e disperazione ma anche la grande volontà nel proseguire con costanza e fermezza la sua ricerca artistica.
Nello struggente confronto col prete ( Mads Mikkelsen), viene messa alla prova la sua fede artistica ma Vincent non vacilla nel suo credo.
La camera ardente che diventa ennesima 'performance', con al centro il corpo senza vita dell'artista martire che s'innalza verso l'eternità, circondato dalle sue opere che i visitatori si affrettano ad acquistare.
Un impeccabile Willem Dafoe, con estrema naturalezza, si cala in questo Van Gogh pacato, teneramente goffo, meditativo, già rassegnato a non essere capito dal suo tempo.
Un film intimista ed essenziale che attraverso inseguimenti con la camera a mano vuole entrare nelle membra di Van Gogh cercando di comprenderne gli stati d’animo, la sua turbata psicologia, il desiderio di affermare e condividere la sua arte.
« È un film sul significato dell’essere artista e il suo ruolo nel mondo. Non potrei fare un film più personale di questo ». (Julian Schnabel, note di regia)
Tutto questo riesce a rendere necessario ed emozionante quest’ennesimo omaggio filmico alla figura di Van Gogh con l’aiuto di una novità rispetto ai tanti predecessori: l’ipotesi che l’artista non si sia suicidato ma sia stato vittima di un incidente provocato da due ragazzi che giocando con una pistola malfunzionante gli avrebbero sparato accidentalmente all’addome.
Schnabel decide di proporre questa versione inedita sulla morte di Vincent ipotizzata nel 2011 in Van Gogh: The Life, il volume biografico degli storici dell’arte Steven Naifeh e Gregory White Smith.
«Sulla questione del suicidio non esiste alcuna testimonianza, nessuno ha mai trovato l’arma da fuoco o il suo materiale per dipingere. Noi abbiamo lottato contro questa leggenda: alla fine della sua vita, Van Gogh realizzava un dipinto al giorno, non era depresso come viene descritto di solito…» (Julian Schnabel)


Willem Dafoe in 'At Eternity's Gate' di J. Schnabel

Un ritratto intenso e silente che segue il corso degli eventi di un uomo, di un artista che ha perseguito il suo sogno di cercare una nuova luce, di dare un autentico senso alla sua esistenza e morto nell’inconsapevolezza di esserci riuscito. Addirittura di aver superato il suo tempo stabilendo un rapporto con l’eternità.