sabato 31 ottobre 2020

IL CORPO #5: HERMANN NITSCH

 


La cura del rosso
di Maddalena Marinelli

Se penso a Hermann Nitsch non riesco proprio ad immaginarlo nello spazio chiuso di una galleria o di un museo ma a sporcare di profondo rosso e visceri qualche verdissima  radura  austriaca, col suo bianco camice sacerdotale e quell’aria paciosa da orologiaio svizzero così distante dal suo modus operandi artistico.
In Austria dal 1961 fino al 1971 è in piena attività dissacratoria, il gruppo tanto discusso del Wiener Aktionismus portatore di scandalo e indignazione in tutto il Paese.
Le performances di Hermann Nitsch, Günter Brus, Rudolf Schwarzkogler e Otto Muehl sono rimaste nella storia della body art e la loro ricerca ha sicuramente contaminato molti percorsi artistici successivi “azionando”  numerosi spunti di riflessione al di là dei connotati più estremi e splatters.
Come togliersi la pelle del borghese perbene?
L’onda distruttiva iconoclasta, il carattere sacrificale e liberatorio delle azioni, il processo di abreazione, il tumulto dionisiaco, l’elemento del sangue, il rapporto sado-masochistico, sono concetti che continueranno ad essere studiati ed approfonditi nella ricerca delle successive generazioni di artisti e gruppi teatrali. In Italia possiamo citare: i Magazzini Criminali, l’Accademia degli Artefatti, La Socìetas Raffaello Sanzio.
Un altro esempio è il performer-drammaturgo Werner Schwab (1958-1994) che condivide con Nitsch l’ambizione ad una religiosità della natura.
Schwab nasce a Graz nella provincia austriaca più conservatrice, attacca la società e il suo inutile perbenismo aprendo la cellar door, smascherando degradati sotterranei dell’anima dove si nascondono gli istinti dimenticati.
Nei grotteschi protagonisti dei suoi “Drammi fecali” si innescano cupi meccanismi stranianti, espansioni di un’interiorità sofferente che si riflette sul disfacimento fisico e inarrestabilmente esplode nell’ultimo atto col delitto rituale.
E dopo il caos si torna all’ordine, i personaggi uccisi ritornano in scena, ed è stato tutto un sogno; abreazione consumatasi sul palcoscenico.
Il trittico Artaud-Freud-Nietzsche crea un nuovo mondo del pensiero seducendo la maggior parte degli artisti del Novecento.
L’immagine di questo mondo è perversa, segnata da un dolore represso e deve rendersi tangibile attraverso il corpo.
Nitsch crea una sorta di teatro delle crudeltà estreme, in cui viene rappresentato “il nostro desiderio inconscio di uccidere” dove il mondo delle regole sociali viene sconvolto e l’artista è impegnato a capire i confini tra il bene e il male tornando al primordiale, al contatto con la spiritualità attraversando la deflagrazione del corpo.
Il performer attenta a se stesso, rompe il limite di autoconservazione, si violenta, si annichilisce.
Si proiettano come aggressori, torturatori, carnefici del proprio corpo ma sono le menti che vogliono scuotere dai torpori. Attraversare il dolore fisico, rendere visibile attraverso la carne una sofferenza dell’anima, condividerla con un pubblico che molto difficilmente può entrare in questo percorso, ma assiste alla lezione di anatomia, la subisce incuriosito, attraverso quel meccanismo di attrazione-repulsione, chiedendosi fino a che punto limite potrà arrivare il performer e fino a che punto lui stesso riuscirà a tenere gli occhi aperti per guardare l’orrore.
Hermann Nitsch realizza da anni una serie di azioni rituali svolte secondo una rigorosa progettualità, il cui elemento principale è quello della crocifissione come mezzo di catarsi e resurrezione.
Introduce nel suo famoso Orgien Mysterien Theater sostanze reali.
Un lavoro con materiali, odori, suoni, come il sangue nel caso di Nitsch o il cibo in quello di Muehl. Le sensazioni tattili, gustative, olfattive vengono esasperate e portate all'eccesso.
L'artista-demiurgo guida i partecipanti e il pubblico verso un operazione necessaria per liberare la nostra sofferenza passiva nell’esplosione del rosso.
Gli attori sono trascinati in una sorta di delirio estatico, in una dimensione orgiastica e insistono sullo sventramento degli animali toccandoli e coprendo il proprio corpo con le loro interiora sanguinanti.
Il sangue costituisce il simbolo iniziatico che introduce ai misteri della vita e della morte.
Attraverso queste forme ritualistiche riemergono quei primordiali istinti umani che la società ci costringe a soffocare e a reprimere come l’ istinto alla violenza e alla morte.
“il colore della carne, del sangue e delle interiora era diventato importante. Dominava il rosso. Il monocromatismo assunse un ruolo arcaico.”(H. Nitsch)
Al sangue, nei rituali delle religioni primordiali, veniva associato tutto ciò che era bello, nobile, generoso, elevato.
Il sangue fortifica l’esperienza fisica e metafisica della vita, che prima ancora di essere esistenza è natura;  il sangue dà la vita, è la sostanza di ciò che cambia, muta, si trasforma e genera.
Anche nella religione cristiana il sangue del sacrificio di Cristo è simbolicamente ricordato dal vino che il sacerdote beve sull’altare, al momento del rito della comunione. Alzando l’ostia e il calice, recita: “Questo è il suo corpo e il suo sangue versato per noi nell’ora della sua morte” un cannibalismo platonico.
Attraverso il sangue bevuto avviene una trasmissione, un’acquisizione di forza e di sapere, un’unione indissolubile e una continuità nel tempo.
L’uomo e il suo legame col sangue, con quello rosso da macello sparso sui brandelli delle sue stesse vittime, nei campi di battaglia disseminati di morti, squarciati e piagati dagli effetti delle guerre o dalle esplosioni atomiche che hanno segnato il nostro Novecento, ma anche il sangue bianco di Auschwitz nascosto, evaporato, cremato insieme ai corpi.  
Il sangue come filo nodale, legame con la memoria e ricongiungimento con la storia.
Un’arte passionale che incastra devozione ed erotismo.
L’artista non a caso è legato a due città italiane che riflettono molto bene lo spirito della sua opera:  Napoli, città dal temperamento viscerale, dove ha svolto importanti performances negli ultimi anni e che gli ha dedicato un museo-laboratorio aperto nel 2008 e poi la Roma Barocca col suo seducente contrasto tra sacro e profano, stracolma di templi e luoghi legati ai riti pagani.

giovedì 15 ottobre 2020

'HUNGER' e 'SHAME', di Steve McQueen

 



Lo status di prigionia dell’uomo contemporaneo
di Maddalena Marinelli

Corporatura imponente, uno sguardo intenso e diretto.
Nelle interviste difende e ribadisce la sua indole d’artista più di quella di cineasta. Dichiara sempre di non ispirarsi a nessuno ma di guardare solo a se stesso seguendo il suo istinto, le proprie esigenze creative e le necessità del film. 
Sicuramente in questo momento ha in testa solo il cinema perché gli piace raccontare storie e ci riesce molto bene.
Il londinese Steve McQueen, è diventato famoso inizialmente come artista vincendo nel 1999 il prestigioso Turner Prize con Drumroll, un’ opera video risultato di una ripresa effettuata con tre telecamere inserite all'interno di fusti per petrolio fatti rotolare per le strade di New York.  
Dalla scultura passa rapidamente alla fotografia e poi alla video-arte.
In Italia abbiamo avuto poche occasioni per vedere  le sue opere. 
Nel 2005 alla Fondazione Prada di Milano è stata presentata una sua antologica.  
Ha partecipato alla Biennale di Venezia del 2007  e nel 2009 è ritornato nel padiglione britannico come special guest  con un’opera video di 30 minuti che riflette sul luogo stesso che accoglie la manifestazione. Protagonisti sono i Giardini della Laguna di Venezia ripresi nel periodo invernale della desolazione tra rifiuti, pezzi di allestimenti e mortiferi levrieri neri in cerca di cibo. 
McQueen elabora una grande sensibilità verso la conoscenza più intima e inaspettata delle vicende umane e dei luoghi dove avvengono. 
La sua comunicazione visiva è fortemente carnale, quasi a cercare un contatto fisico con lo spettatore, per provocare un risveglio dei sentimenti assopiti. 
Un aspetto che trasmigrerà dall’arte al cinema.  
Esplora spesso le zone urbane ma arriverà a riprendere la miniera d'oro più profonda del mondo in Sud Africa. 
In Western Deep (2002) l'artista ha seguito e documentato il lavoro e gli esercizi di disintossicazione dei minatori in un viaggio nelle viscere della terra. 
Lo spettatore è trascinato in un abisso claustrofobico e silenzioso.  
Nello stesso anno realizza Carib’s Leap (Falling People)/Carib’s Leap (Live Action) un’opera video che fa riferimento al suicidio di massa  degli abitanti dell’isola di Grenada che nel 1651 si gettarono  nell’Oceano   da un’altura,  scegliendo la morte, pur di evitare la schiavitù sotto il dominio francese. 
Nel 2003 si reca  in Iraq come artista di guerra, nominato dal comitato d'arte dell’ Imperial War Museum. 
Uno dei progetti scaturiti da quest’esperienza fortissima è Queen and Country un’installazione esposta nel 2010 alla National Portrait Gallery di Londra. 
Si tratta di una serie di foto dei soldati britannici uccisi in Iraq che si ripetono su facsimili di pagine e pagine di francobolli della Royal Mail. 
Una laconica scansione di volti.  Un progetto che riuscì a realizzare grazie alla collaborazione delle famiglie delle vittime che accettarono di mettere a disposizione le foto. 
In seguito l’artista iniziò una battaglia per far stampare davvero, sopra i francobolli delle poste inglesi, le immagini dei soldati morti.

Michael Fassbender in 'Hunger' (2008)


Nel 2008 con Hunger fa il passo decisivo verso il cinema che ormai covava da troppo tempo nell’esperienza da videoartista. 
Riesce a presentare il suo primo lungometraggio al Festival di Cannes e vince la Camera D’Or registrando per settimane il tutto esaurito nei cinema di Londra, Parigi e Berlino. 
In Italia Hunger arriverà in sala in grave ritardo, nel 2012 grazie alla BIM.
Per fortuna la stessa sorte non è toccata a Shame grazie al successo alla  68° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia e la meritata Coppa Volpi all’attore Michael Fassbender. 
Con Hunger si affronta un’altra pagina nera della Gran Bretagna. La protesta dei detenuti dell’IRA nel carcere di Long Kesh contro il mancato riconoscimento dello status di prigioniero politico da parte del governo britannico. Ma il regista, oltre a questo, si sofferma ampiamente sugli ultimi giorni di vita dell’ attivista nordirlandese Bobby Sands,  morto dopo 66 giorni di sciopero della fame. 
Una morte tutta raccontata e sentita attraverso la sofferenza del corpo, protagonista straziante. 
L’orrore e la violenza della vita carceraria vengono  ricomposti in irreprensibili e glaciali inquadrature ricercando inusuali posizionamenti della videocamera. 
McQueen sperimenta e agisce sugli opposti.  
Alterna e unisce una componente tecnica ricercata, fredda e cronistica con una penetrante componente emotiva. 
Scarnifica i corpi e la storia da ogni elemento didascalico, narrativo, morale, politico, sociale. 
Rimane la scelta estrema di un uomo che difende il suo ideale contro un sistema e ad un certo punto diventa solo la dolorosa cronaca della morte di un essere umano nel suo lento e consapevole spegnersi.  
Affida tutto il suo film alla successione d’immagini private quasi completamente di parole. Quindi la riuscita dipenderà solo dalla loro capacità di comunicare efficacemente la vicenda allo spettatore. 
Il meccanismo sembra funzionare alla perfezione anche se a circa metà film il regista, dopo tanto mutismo, stupisce inserendo un intenso dialogo ininterrotto di 22 minuti tra Bobby Sands e il parroco della sua città. 
La ripresa rimane fissa per quasi tutto il tempo facendo sentire lo spettatore un intruso nella stanza, quasi un invasore dell’intimità tra i due personaggi.
Attraversiamo le varie fasi della contestazione che inizia con la blanket protest, proseguendo con la dirty protest in cui i detenuti spalmano gli escrementi sui muri delle celle . 

'Hunger' di Steve McQueen


Il lerciume sulle pareti diventa una spirale astratta che si dissolve sotto un getto d’acqua e l’immagine dell’urina che scorre sotto le porte è trasformata in un’inquietante scena metafisica. 
Infine arriviamo allo sciopero della fame, in cui il corpo si ospedalizza e diventa quello di un malato terminale che abbandona lo scafandro e ormai viaggia libero con la mente tra passato, brevi risvegli nel presente e visioni dell’aldilà. 
Come un Caravaggio morente sulla spiaggia di Porto Ercole o un Van Gogh agonizzante in un campo di grano  ad Auvers-sur-Oise. 
Sopra il corpo di Bobby Sands la videocamera ha  le movenze e i rumori di un corvo che sbatte le ali. Annuncia la fine ed è un tramite tra il regno dei vivi e quello dei morti.
Dopo un così straordinario esordio con Hunger c’era molta attesa per il secondo lungometraggio Shame che ha confermato il talento registico di Steve McQueen  per poi svoltare in una produzione hollywoodiana con 12 Years a Slave (2013) basato sulla storia vera di Solomon Northrup, un uomo di colore rapito e venduto come schiavo in una piantagione di cotone in Louisiana, da dove fu liberato solo dopo dodici anni. 
Un’altra tematica di forte richiamo sociale e un’altra storia che parla di una vita sotto costrizione. 
In Shame il protagonista è solo apparentemente un uomo libero e dall’ esistenza realizzata. 
Ha un volto familiare.  
E’ giovane e bello, vive in un loft al centro di New York, ha un buon lavoro ma in realtà si trova in una prigionia mentale; schiavo della sua dipendenza al sesso che condiziona e scandisce, in modo sempre uguale, tutte le sue giornate. 
Dall’America arriva l’80% del porno che si consuma in tutto il mondo. 
In Italia i sessuomani sono più di un milione e mezzo. 
Un fenomeno diffusissimo di consumatori compulsivi di erotismo industriale tra internet, sesso a pagamento, club privè ecc.. 
Una vera e propria patologia che isola dalla realtà e determina una frigidità morale ed emotiva. 

Michael Fassbender in 'Shame' 


Brandon è solo e vive in continuo stato d’allarme per nascondere la sua 'vergogna'. 
Il suo corpo cerca l’oblio nel sesso ma è disperatamente insaziabile di un appagamento che non raggiunge mai. 
Quando irrompe l’ospite inatteso, a spezzare la regolarità dei suoi rituali giornalieri, entra in crisi. 
Il confronto con la sorella riapre profonde ferite del passato da cui derivano tutti i mali. Mentre Brandon soffre di una dipendenza sessuale Sissy, in opposizione al fratello,  soffre di una dipendenza sentimentale così devastante che, quando rimane delusa o si sente abbandonata, genera impulsi suicidi. 
Entrambi, nel corso di una notte terribile ma risolutiva, arriveranno al limite dell’autodistruzione. 
Lui, nel tentativo di soffocare emozioni e sentimenti che ormai prevaricano senza più argini, precipita in un’ ouverdose infernale di sesso estremo mentre lei decide di togliersi la vita ma non sarà la fine per nessuno dei due. 
L’occhio di McQueen resta addosso sul protagonista per quasi tutto il film con invasivi primi e primissimi piani. 
Vuole creare un legame intimo tra lo spettatore e il personaggio per rafforzare l’effetto empatico quando il dramma comincerà a crescere. 
Svela tutti gli atti nascosti della sua dipendenza, coglie le lacrime sul suo viso mentre ascolta cantare la sorella in un locale. 
Ed è ancora il corpo  punto di vista, punto di partenza, punto di rottura; luogo di contatto e di separazione tra il sé e il mondo. 
L’altra protagonista  è New York con i suoi asettici interni di uffici e camere d’albergo da cui Brandon, inscatolato nel suo solipsismo, osserva l’esterno dall’ enorme finestra/schermo. 
Dialoghi ridottissimi come in Hunger e immagini molto curate sul filo del puro compiacimento estetico. 

'Shame' di Steve McQueen


C’è un po’ il sentore della patinatezza pubblicitaria ma non si rimane a quello stadio raggelante come accade nel film A Single Man di Tom Ford  che chiuso nell’esasperante ricercatezza formale, non riesce a rendere credibile e coinvolgente il dolore del protagonista nonostante la grande performance attoriale di Colin Firth. 
In Shame questo rischio di esporre sterile materia filmica auto-contemplativa si sfiora ma poi c’è tutto un mondo psicologico che esplode non rimanendo raggelato in superficie.

Chiwetel Ejiofor e Lupita Nyong'o in '12 anni schiavo'

In 12 anni schiavo McQueen cambia, affronta un film corale, molto meno sperimentale, mirato alla vittoria del premio Oscar e l’intento riesce.
Il film trionfa vincendo tre statuette: Miglior film, Migliore attrice non protagonista, Migliore sceneggiatura non originale.

Pur con tutte le sue edulcorazioni e didascalismi 12 anni schiavo è un film potente e tra i pochi a restituire un punto di vista così incisivo e autentico sulla disumanità legalizzata dello  schiavismo negli Stati Uniti d'America.
Penetra con il lirismo delle immagini e la sua drammaticità portata al culmine.
Coinvolge, con sottile sensibilità, lo spettatore dentro ogni scena lasciandolo libero di giudicare quello che vede. 
Ci trasporta all’interno della vicenda con inquadrature strette, sempre ad un palmo dai personaggi con pochi e statici respiri panoramici a camera fissa.
La struggente bellezza di una natura incontaminata e illimitata ma impassibile al dramma umano. 
Sempre vista dietro invisibili sbarre. Non può dare nessuna gioia o sollievo. 
Come in Malick e in Weir c’è un creato che scandisce tranquillamente il passare del tempo, mentre tra gli uomini si consumano i crimini più terribili.
Una tacita complice perché nei suoi meandri di fitte foreste, paludi, alberi secolari avvengono impiccagioni, sparizioni, stupri, torture, suicidi. 
C’è una violenza molto esplicita mostrata allo spettatore in lunghi piani-sequenza in cui lo scorrere del tempo sembra interrompersi di colpo, per isolare la sospensione del martirio.
Una crudeltà che viene analizzata nelle sue sfumature, nelle conseguenze provocate non solo sugli oppressi ma anche sugli oppressori. 
Solomon Northup ci fa attraversare tutti i ‘diversi’ gironi infernali dei 12 anni in cui è stato privato della sua libertà e dei suoi diritti umani.
Ridotto a una proprietà, un 'bene schiavo' da disporre a piacimento per ogni schiavista alternatosi nella sua terribile vicenda che inizia con un rapimento per ritrovarsi come merce umana da vendere ad un'asta, fino alle piantagioni/ lager a cielo aperto. 
In McQueen resta costante come filo conduttore della sua ricerca, tra arte e cinema, l’impegno sociale e l’indagine psicologica sullo stato di oppressione che può nascondersi nel quotidiano.
Il corpo indiscusso protagonista di ogni inquadratura.  
Su di esso il malessere del vivere diventa infernale epifania organica. 
Un’ armatura sacrificale contro un potere sociale/economico/politico aberrante  che infine lascia ogni gravità e si smaterializza per sublimarsi in rinascita e quindi nuova speranza.
Sulla scia dell’impegno civile si prosegue con Widows (2018) per arrivare alla miniserie di cinque puntate Small Axe del 2020 per BBC One che racconterà fatti reali che hanno coinvolto la comunità nera distintasi in varie epoche per coraggio e capacità di combattere razzismo e ingiustizie.



'Small Axe' di Steve McQueen


Le prime due puntate di Small Axe saranno presentate alla Festa del Cinema di Roma 2020. In tale occasione al regista britannico verrà consegnato il premio alla carriera.
Il cinema di Steve McQueen  racconta di prigionie restando, a sua volta, chiuso in un rigido regime tecnico di repressione, dove tutto è controllo. 
Un equilibrio perfetto di tempi, forme, colore, suono  per poi innescare l’evasione attraverso un potente congegno emotivo.