venerdì 11 agosto 2023

L' ARTISTA MALEDETTO #5: Basquiat lo sfrenato

 

DOWNTOWN 81 di Edo Bertoglio


Ascesa e caduta di un enfant prodige
di Maddalena Marinelli

Il diciannovenne Jean-Michel vagabonda per le strade di New York.
Passa accanto al Guggenheim Museum con aria scanzonata.
Saluta belle ragazze, spacciatori, vecchi amici, stravaganti outsiders.
Attraversa i quartieri degradati e le sfavillanti vie del benessere economico.
Ciondola con una tela sottobraccio. 
Usando uno spray lascia sul muro un pensiero. Una traccia del suo passaggio, una frase sovversiva firmata Samo.
Entra in una serie di locali alla moda per ascoltare e suonare diversi generi di musica.

Basquiat in 'Downtown 81' di Edo Bertoglio

Si tratta del film Downtown 81 di Edo Bertoglio, girato nel 1981 ma uscito solo nel 2000, in cui Basquiat interpreta se stesso.
Insieme a lui compaiono altri artisti, musicisti, amici. 
Tipici volti dell’entourage artistica newyorkese anni Ottanta.
“Tutto quello che accadde negli anni Ottanta ebbe a che fare con l’avidità e la velocità. E la realtà è che l’arte diventò metafora perfetta degli anni Ottanta.
Sai di che parlo: lusso, glam, entrate disponibili, eccessi. E così Basquiat come artista finì per rappresentare gli anni Ottanta ancor più di Schnabel”
( Mary Boone, intervistata da Phoebe Hoban)

Basquiat in 'Downtown 81' di Edo Bertoglio

Downtown 81 è un’efficace e autentica testimonianza di quell’epoca.  
Una perfetta sintesi del vivere quotidiano e delle fonti da cui Basquiat traeva l’ispirazione artistica. 
La strada, la vita, la musica, la gente, i mass media.
Molto diverso il film di Schnabel, Basquiat del 1996; un ritratto cubista, un malinconico omaggio carico d’affetto.
L’intento è di non voler analizzare o delineare didascalicamente la vita e l’opera dell’artista  ma di lasciare un' impressione, una traccia aperta.
Un poetico e metafisico ricordo, non tralasciando elementi concreti e determinanti come il difficile rapporto con il padre, la malattia della madre, il legame con Warhol, l’abuso di droghe, la discriminazione razziale,  la sua patologica volubilità.
Un cucciolo irascibile con quell’aria da candore fanciullesco, con quegli occhioni profondi che esprimevano un incasinato mondo emotivo in perenne, irrefrenabile eruzione.
Un lancinante tormento interiore, una grande fragilità, la voglia di un riconoscimento, il bisogno di affetto e stima che gli era stato negato nell’infanzia.
Tutto questo Jean-Michel lo libera in un bisogno continuo e compulsivo di disegnare su qualsiasi cosa: fogli, libri, muri, pavimenti.
La sua rabbia e il suo caos psichico esplodono per diventare composizione e ritmo tra segno, colori, parole, oggetti.

Jeffrey Wright in 'Basquiat' (1996) di Julian Schnabel

Molto istinto con un granello di metodo.
Basquiat era flusso vitale a getto continuo. Creatività artistica che non si arresta mai.
Carisma, pieno vigore, un canale aperto che raccoglieva qualsiasi trasmissione intercettata trasformandola in immagine.
Comprava centinaia di libri: monografie di qualsiasi artista (amava Leonardo), manuali di anatomia, fumetti ma anche saggistica, filosofia, narrativa.
In casa aveva la televisione sempre accesa. 
Ascoltava in continuazione e ovunque musica di ogni tipo dal jazz alla lirica.
Durante le inaugurazioni lo vedevi sempre con le cuffie del walkman  nelle orecchie, ovviamente fumando una canna.
Proveniva da una famiglia complicata ma benestante che lasciò il prima possibile a causa di un padre autoritario con tendenza a comportamenti violenti e una madre con problemi psichici.
Poi la vita per strada, da senzatetto, dormendo nei parchi in una scatola di cartone.
L’improvvisa ascesa, quella fama e ricchezza tanto desiderate da sbattere in faccia a quel padre che pur riconoscendo la sua intelligenza non pensava che il figlio potesse combinare qualcosa di buono. “Papà, un giorno diventerò molto, molto famoso”

Jeffrey Wright in 'Basquiat' (1996) di Julian Schnabel

Poi Jean  si è lasciato fagocitare, si è lasciato usare ma ha imparato anche lui ad usare.
Tutti gli giravano intorno e volevano qualcosa da lui; volevano un pezzo dell’enfant prodige. 
Tutti erano schiavi della sua fascinazione.
Tutti erano coscienti della sua lenta discesa negli inferi, impossibile da arrestare o fin troppo facile da accellerare.
Circa un decennio passato a produrre freneticamente opere che i più importanti galleristi si contendevano da Annina Nosei a Bruno Bischofberger o Emilio Mazzoli, Mary Boone e Larry Gagosian.
Gli eccessi tra l’uso continuo di eroina, cocaina, montagne di marijuana.
Ogni giorno era in giro sulla sua bicicletta alla ricerca di droghe.
Le innumerevoli amanti.
Quell’affascinante combinazione tra tenero ragazzino dal corpo atletico e uomo che trasudava un’intensa carica animalesca piaceva molto alle donne.  
Rimase travolto, solo e deluso proprio da tutto quello che voleva tanto conquistare come rivalsa sociale e personale.
Non fece in tempo a liberarsi dal suo demone.
Il piccolo principe con la sua corona magica che incantò tutti, morì di overdose a soli ventisette anni il 12 Agosto 1988.
L' anno prima era rimasto orfano del suo mentore Andy Warhol con cui realizzò diversi lavori, diciamo, a quattro mani.
Tra cui Dog (1984), Thin lips (1984-85), Poison/Eel (1984-85). 
Queste interazioni andarono avanti per circa un anno e furono abbastanza turbolente a causa delle stramberie e della vita sregolata di Basquiat.
L’enfant terrible si presentava alla Factory all’ora che voleva.
Di solito Warhol aveva già fatto il suo intervento sulla tela che nella maggior parte dei casi si trattava di uno dei suoi loghi; poi lasciava campo libero alla rude creatività del tocco di Jean, che procedeva e terminava l’opera come voleva.

David Bowie e Jeffrey Wright in 'Basquiat' di Julian Schnabel

Quindi, in realtà, i due artisti durante queste 'collaborazioni' non dipingevano mai insieme, neanche si incontravano o confrontavano.
Comunque il rapporto si basava su una grande stima reciproca.
Nel Settembre del 1985, alla Tony Shafrazi Gallery, furono esposte tutte le opere risultato da questo connubio artistico e i critici le stroncarono. Fu venduto solo un quadro.
Il fragile ego dell'enfant prodige dovette incassare un duro colpo. 
Jean non sopportava il rifiuto.

Jeffrey Wright in 'Basquiat' di Julian Schnabel

Basquiat aveva una profonda ammirazione per Warhol che considerava quasi una figura paterna e Warhol lo vedeva come un pittore puro, un grande talento.
Nell'opera di Basquiat si può godere dell’immediato impatto emotivo, della forte empatia che ci trascina nel suo mondo.
Lo straordinario modo di racchiudere la composizione in un solido equilibrio visivo.
Percorsi su tela di criptiche mappe che alludono all’odio razziale, alla politica, alla società degli anni Ottanta, incrociate alle esperienze personali dell’artista e al tentativo di esorcizzare i suoi fantasmi interiori.
Parole, simboli e immagini. Ogni elemento è riconoscibile anche se in certi casi di non facile interpretazione.
Omaggi e riferimenti ai suoi idoli musicali come Louis Armstrong, Miles Davis ma in particolar modo a Charlie Parker anch'egli genio innovatore, eroinomane e autodistruttivo, morto a soli 34 anni.
L’arte e la vita per Jean erano la stessa cosa.
Le parole cancellate perché “Così fai più attenzione a quello che dico. Vuoi vedere che c’è sotto le cancellature” (Jean-Michel Basquiat)
Un quadro poteva essere semplicemente l’istantanea di una sua giornata tipo, con scritto un numero di telefono di qualcuno che era andato a trovarlo a casa, la testa di un personaggio di un cartone animato  che in quel momento compariva in televisione, l’impronta di una scarpa di un’amante passeggera, un colore psichedelico che sgocciolava libero sul suo corpo fino a scivolare ed imprimersi sulla tela fissata sul pavimento come ‘zona magica’; un buco nero che divorava tutto in cui perdersi, ritrovarsi o lasciarsi annegare.