martedì 24 novembre 2020

L' ARTISTA MALEDETTO #4: 'GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY', di Peter Greenaway

 

'GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY' (2012) di Peter Greenaway - visibile su CHILI


Il volto impuro dell’arte
di Maddalena Marinelli

L’arte, il potere e l’artista. 
L’arte, per sua natura e funzione, contrasta il potere evidenziandone tutti i limiti, le ipocrisie, i soprusi, la violenza ma allo stesso tempo l’artista non può rimanere fuori dall’ingranaggio e dagli interessi economici.
Ecco consumarsi un gioco senza fine  tra lo scendere a compromessi e il ribellarsi mettendo in moto una serie di conseguenze.
“L’opera d’arte è sempre una confessione” (Umberto Eco)
L’arte aiuta a capire la realtà, ricerca quelle verità che al potere fa comodo tenere nell’ombra ma può l’arte avere facoltà d’intervento reale? 
Oppure è soltanto una consolazione come diceva Thomas Mann?
Peter Greenaway in Goltzius and the Pelican Company riflette, con la sua cinica ironia, su questa tematica andando ad incastrarne molte altre all’interno di un’ideale ‘opera totale’.
Una scatola magica in cui avviene la teatralizzazione dell’arte e della vita.
Anzi molto di più, un contenitore ipertestuale che ha la pretesa di raccontare una vicenda integrandola con  visioni rielaborate che provengono dalla storia dell’arte, dell’architettura , del teatro. 
Un’ opera filmica che diventa una vera e propria lezione sul sapere umano in cui la complessità dell’immagine è sempre pari a quella data all’oralità e alla scrittura.
Una delle più famose provocazioni del regista gallese è asserire la morte del cinema. Infatti Greenaway sottomette completamente la tecnica cinematografica ai misteri della creazione artistica, per lui esiste solo l’immensità dell’arte. 
Continua ad essere un pittore, compositore d’immagini, passando dalla tela allo schermo trascinandosi dietro il suo debordante taccuino di appunti, teorie, immagini, pensieri, parole, musiche.

'GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY', di Peter Greenaway


Gli unici personaggi a cui è interessato sono gli artisti: l’architetto, il pittore, lo scrittore sempre usati come chiave per entrare in un territorio immaginifico riccamente stratificato e dare vita al suo esclusivo organismo: un’opera/saggio multidisciplinare.
Il suo più grande amore è senza dubbio la pittura soprattutto quella del Rinascimento,  Manierismo e Barocco. 
La teatralizzazione gli ha permesso di far esplodere  tutta la magnificenza, i simbolismi, la ricchezza cromatica di questi periodi storici così fecondi per la produzione artistica.
L’olandese Hendrik Goltzius è stato uno dei grandi incisori olandesi del primo periodo Barocco, ovvero del Manierismo settentrionale. 
Famoso per le sue stampe erotiche. Il film racconta le peripezie dell’artista Goltzius e della sua compagnia teatrale alla corte del Margravio d'Alsazia. 
Per convincere quest’ultimo a finanziare un libro di preziose stampe, sulle storie del Vecchio Testamento, i teatranti accettano di interpretare ogni sera, per il piacere del Mangravio, alcune delle più emblematiche e controverse vicende delle sacre scritture: Adamo ed Eva e il peccato originale, Lot e le sue figlie, Giuseppe e la moglie di Putifarre, Davide e Betsabea, Sansone e Dalida, Salomé e Giovanni Battista. 
L’attenzione si concentra su 'sei tabù' legati alla sfera del sesso (fornicazione, incesto, adulterio, seduzione dell’innocente, prostituzione e necrofilia) rappresentati attraverso autentiche performance sessuali dal vivo. 
Raffinati tableaux vivants  pornografici in cambio di finanziamenti per l’attività della stamperia artistica.
Quello che ha inizio come un semplice gioco lascivo porterà ad accesi dibattiti morali e filosofici che finiranno per innescare una catena di tragici eventi in cui la finzione s’intreccia con la realtà coinvolgendo le vicende personali degli attori e della corte. 
Viene liberata tutta quella carica violenta nascosta nei testi sacri.
Presto l’atmosfera festosa inizierà a tingersi del sangue di evirazioni, flagellazioni e decollazioni come se ad ogni amplesso susseguisse un’inevitabile azione punitiva in una crescente atmosfera sadica alla Sodoma e Gomorra. 
Tutto questo sotto gli occhi di Goltzius che sdoppiandosi è simultaneamente dentro gli accadimenti e fuori, come volto e voce narrante. 
In entrambi i casi impotente di fronte alle tante sofferenze patite dai suoi amici. 
L’artista potrà solo osservare l’implacabile decorso e proseguire da superstite la sua missione artistica. 
Condividere le sue erudite deduzioni sulle disavventure della Compagnia del Pellicano, trasponendo le emozioni in immagini e parole.

'GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY', di Peter Greenaway


La meravigliosa ascesa dell’arte e la sua discesa, il  retroscena più crudele. 
Sesso e morte sono le tematiche preferite da  Greenaway ma in Goltzius and the Pelican Company c’è anche l’ossessione per la conoscenza, le controversie sulla morale sessuofobica del  Cristianesimo,  l’ottusità del potere politico messo in ridicolo, il potere temporale della Chiesa che addirittura alla fine si rivela come il primo grande stratega ricollocando ogni cosa secondo un infido ordine. 
L’analisi del regista gallese è molto dura nei confronti del ruolo dell’artista nella società. Un altro tema centrale è quello della mercificazione dell’arte e dell’erotismo. 
Vuole mostrare il torbido che si nasconde dietro lo splendore artistico ed evidenziare quelle scelte meno edificanti  a cui è sottoposta la carriera dell’artista. 
Davvero un perverso ossimoro. 
Costruire visivamente la più spettacolare esaltazione dell’arte e poi calargli addosso una cappa nera.
Non ci viene dato il tempo di contemplare le immagini perché veniamo assaliti dall’incessante flusso delle parole intinte in una pungente satira.
La sceneggiatura si divide in tre piani narrativi. 
C’è ‘la trama biblica’ che risalta  la rappresentazione delle sei storie tratte dal Vecchio Testamento. 
La seconda è ‘la trama del Margravio’ che evidenzia le conseguenze delle rappresentazioni dei racconti biblici sulla corte e sugli attori. 
La terza è ‘la trama di Susanna e i vecchioni’  - il voyerismo che passa dall’artista al Margravio fino al pubblico in sala - che spiega l’ossessione di Goltzius per l’erotismo, le ragioni personali del suo comportamento equivoco e il cambio del suo orientamento sessuale.
Greenaway assedia lo spettatore da ogni angolazione visiva e uditiva. 
Il fulcro visivo, in primo piano, che cattura l’occhio è maestoso come un altare sacro.
Un Cinquecento ricostruito all’interno di un fabbricato industriale in disuso.  
Il regale scenario è illuminato da una luce raggelante  proiettata su corpi che già sembrano lattescenti cadaveri preannunciando il loro imminente sacrificio all’interno dell’enorme palcoscenico di delizie e supplizi in cui pubblico e attori vengono (p)uniti. Tutti entrano ed escono dalla finzione alla realtà. 
Quindi tutti possono trovarsi sotto inquisizione anche lo spietato Margravio.
La composizione visiva è sempre molto complessa. 
La scena, ispirata ad opere pittoriche,  racchiude una ricercata iconografia. 
Tutto ciò viene custodito, a sua volta, all’interno di un impianto architettonico che scandisce lo spazio e lo trasforma apparendo improvvisamente sottoforma di modellazioni in  3D. 
Al centro c’è il corpo dell’attore come cuore pulsante e recitante, mai semplice apparizione. 

'GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY', di Peter Greenaway


L’attore è chiamato a dimostrare di essere tale e la sua oralità deve emergere insieme  all’impianto visivo che abita.
Ogni elemento è una chiave che apre altre porte da attraversare in un mondo che ci trascina dentro il suo lento declino in cui si riflette lo sfacelo della società contemporanea. 
L’estremismo di Greenaway adora distruggere almeno quanto ama creare.

sabato 31 ottobre 2020

IL CORPO #5: HERMANN NITSCH

 


La cura del rosso
di Maddalena Marinelli

Se penso a Hermann Nitsch non riesco proprio ad immaginarlo nello spazio chiuso di una galleria o di un museo ma a sporcare di profondo rosso e visceri qualche verdissima  radura  austriaca, col suo bianco camice sacerdotale e quell’aria paciosa da orologiaio svizzero così distante dal suo modus operandi artistico.
In Austria dal 1961 fino al 1971 è in piena attività dissacratoria, il gruppo tanto discusso del Wiener Aktionismus portatore di scandalo e indignazione in tutto il Paese.
Le performances di Hermann Nitsch, Günter Brus, Rudolf Schwarzkogler e Otto Muehl sono rimaste nella storia della body art e la loro ricerca ha sicuramente contaminato molti percorsi artistici successivi “azionando”  numerosi spunti di riflessione al di là dei connotati più estremi e splatters.
Come togliersi la pelle del borghese perbene?
L’onda distruttiva iconoclasta, il carattere sacrificale e liberatorio delle azioni, il processo di abreazione, il tumulto dionisiaco, l’elemento del sangue, il rapporto sado-masochistico, sono concetti che continueranno ad essere studiati ed approfonditi nella ricerca delle successive generazioni di artisti e gruppi teatrali. In Italia possiamo citare: i Magazzini Criminali, l’Accademia degli Artefatti, La Socìetas Raffaello Sanzio.
Un altro esempio è il performer-drammaturgo Werner Schwab (1958-1994) che condivide con Nitsch l’ambizione ad una religiosità della natura.
Schwab nasce a Graz nella provincia austriaca più conservatrice, attacca la società e il suo inutile perbenismo aprendo la cellar door, smascherando degradati sotterranei dell’anima dove si nascondono gli istinti dimenticati.
Nei grotteschi protagonisti dei suoi “Drammi fecali” si innescano cupi meccanismi stranianti, espansioni di un’interiorità sofferente che si riflette sul disfacimento fisico e inarrestabilmente esplode nell’ultimo atto col delitto rituale.
E dopo il caos si torna all’ordine, i personaggi uccisi ritornano in scena, ed è stato tutto un sogno; abreazione consumatasi sul palcoscenico.
Il trittico Artaud-Freud-Nietzsche crea un nuovo mondo del pensiero seducendo la maggior parte degli artisti del Novecento.
L’immagine di questo mondo è perversa, segnata da un dolore represso e deve rendersi tangibile attraverso il corpo.
Nitsch crea una sorta di teatro delle crudeltà estreme, in cui viene rappresentato “il nostro desiderio inconscio di uccidere” dove il mondo delle regole sociali viene sconvolto e l’artista è impegnato a capire i confini tra il bene e il male tornando al primordiale, al contatto con la spiritualità attraversando la deflagrazione del corpo.
Il performer attenta a se stesso, rompe il limite di autoconservazione, si violenta, si annichilisce.
Si proiettano come aggressori, torturatori, carnefici del proprio corpo ma sono le menti che vogliono scuotere dai torpori. Attraversare il dolore fisico, rendere visibile attraverso la carne una sofferenza dell’anima, condividerla con un pubblico che molto difficilmente può entrare in questo percorso, ma assiste alla lezione di anatomia, la subisce incuriosito, attraverso quel meccanismo di attrazione-repulsione, chiedendosi fino a che punto limite potrà arrivare il performer e fino a che punto lui stesso riuscirà a tenere gli occhi aperti per guardare l’orrore.
Hermann Nitsch realizza da anni una serie di azioni rituali svolte secondo una rigorosa progettualità, il cui elemento principale è quello della crocifissione come mezzo di catarsi e resurrezione.
Introduce nel suo famoso Orgien Mysterien Theater sostanze reali.
Un lavoro con materiali, odori, suoni, come il sangue nel caso di Nitsch o il cibo in quello di Muehl. Le sensazioni tattili, gustative, olfattive vengono esasperate e portate all'eccesso.
L'artista-demiurgo guida i partecipanti e il pubblico verso un operazione necessaria per liberare la nostra sofferenza passiva nell’esplosione del rosso.
Gli attori sono trascinati in una sorta di delirio estatico, in una dimensione orgiastica e insistono sullo sventramento degli animali toccandoli e coprendo il proprio corpo con le loro interiora sanguinanti.
Il sangue costituisce il simbolo iniziatico che introduce ai misteri della vita e della morte.
Attraverso queste forme ritualistiche riemergono quei primordiali istinti umani che la società ci costringe a soffocare e a reprimere come l’ istinto alla violenza e alla morte.
“il colore della carne, del sangue e delle interiora era diventato importante. Dominava il rosso. Il monocromatismo assunse un ruolo arcaico.”(H. Nitsch)
Al sangue, nei rituali delle religioni primordiali, veniva associato tutto ciò che era bello, nobile, generoso, elevato.
Il sangue fortifica l’esperienza fisica e metafisica della vita, che prima ancora di essere esistenza è natura;  il sangue dà la vita, è la sostanza di ciò che cambia, muta, si trasforma e genera.
Anche nella religione cristiana il sangue del sacrificio di Cristo è simbolicamente ricordato dal vino che il sacerdote beve sull’altare, al momento del rito della comunione. Alzando l’ostia e il calice, recita: “Questo è il suo corpo e il suo sangue versato per noi nell’ora della sua morte” un cannibalismo platonico.
Attraverso il sangue bevuto avviene una trasmissione, un’acquisizione di forza e di sapere, un’unione indissolubile e una continuità nel tempo.
L’uomo e il suo legame col sangue, con quello rosso da macello sparso sui brandelli delle sue stesse vittime, nei campi di battaglia disseminati di morti, squarciati e piagati dagli effetti delle guerre o dalle esplosioni atomiche che hanno segnato il nostro Novecento, ma anche il sangue bianco di Auschwitz nascosto, evaporato, cremato insieme ai corpi.  
Il sangue come filo nodale, legame con la memoria e ricongiungimento con la storia.
Un’arte passionale che incastra devozione ed erotismo.
L’artista non a caso è legato a due città italiane che riflettono molto bene lo spirito della sua opera:  Napoli, città dal temperamento viscerale, dove ha svolto importanti performances negli ultimi anni e che gli ha dedicato un museo-laboratorio aperto nel 2008 e poi la Roma Barocca col suo seducente contrasto tra sacro e profano, stracolma di templi e luoghi legati ai riti pagani.

giovedì 15 ottobre 2020

'HUNGER' e 'SHAME', di Steve McQueen

 



Lo status di prigionia dell’uomo contemporaneo
di Maddalena Marinelli

Corporatura imponente, uno sguardo intenso e diretto.
Nelle interviste difende e ribadisce la sua indole d’artista più di quella di cineasta. Dichiara sempre di non ispirarsi a nessuno ma di guardare solo a se stesso seguendo il suo istinto, le proprie esigenze creative e le necessità del film. 
Sicuramente in questo momento ha in testa solo il cinema perché gli piace raccontare storie e ci riesce molto bene.
Il londinese Steve McQueen, è diventato famoso inizialmente come artista vincendo nel 1999 il prestigioso Turner Prize con Drumroll, un’ opera video risultato di una ripresa effettuata con tre telecamere inserite all'interno di fusti per petrolio fatti rotolare per le strade di New York.  
Dalla scultura passa rapidamente alla fotografia e poi alla video-arte.
In Italia abbiamo avuto poche occasioni per vedere  le sue opere. 
Nel 2005 alla Fondazione Prada di Milano è stata presentata una sua antologica.  
Ha partecipato alla Biennale di Venezia del 2007  e nel 2009 è ritornato nel padiglione britannico come special guest  con un’opera video di 30 minuti che riflette sul luogo stesso che accoglie la manifestazione. Protagonisti sono i Giardini della Laguna di Venezia ripresi nel periodo invernale della desolazione tra rifiuti, pezzi di allestimenti e mortiferi levrieri neri in cerca di cibo. 
McQueen elabora una grande sensibilità verso la conoscenza più intima e inaspettata delle vicende umane e dei luoghi dove avvengono. 
La sua comunicazione visiva è fortemente carnale, quasi a cercare un contatto fisico con lo spettatore, per provocare un risveglio dei sentimenti assopiti. 
Un aspetto che trasmigrerà dall’arte al cinema.  
Esplora spesso le zone urbane ma arriverà a riprendere la miniera d'oro più profonda del mondo in Sud Africa. 
In Western Deep (2002) l'artista ha seguito e documentato il lavoro e gli esercizi di disintossicazione dei minatori in un viaggio nelle viscere della terra. 
Lo spettatore è trascinato in un abisso claustrofobico e silenzioso.  
Nello stesso anno realizza Carib’s Leap (Falling People)/Carib’s Leap (Live Action) un’opera video che fa riferimento al suicidio di massa  degli abitanti dell’isola di Grenada che nel 1651 si gettarono  nell’Oceano   da un’altura,  scegliendo la morte, pur di evitare la schiavitù sotto il dominio francese. 
Nel 2003 si reca  in Iraq come artista di guerra, nominato dal comitato d'arte dell’ Imperial War Museum. 
Uno dei progetti scaturiti da quest’esperienza fortissima è Queen and Country un’installazione esposta nel 2010 alla National Portrait Gallery di Londra. 
Si tratta di una serie di foto dei soldati britannici uccisi in Iraq che si ripetono su facsimili di pagine e pagine di francobolli della Royal Mail. 
Una laconica scansione di volti.  Un progetto che riuscì a realizzare grazie alla collaborazione delle famiglie delle vittime che accettarono di mettere a disposizione le foto. 
In seguito l’artista iniziò una battaglia per far stampare davvero, sopra i francobolli delle poste inglesi, le immagini dei soldati morti.

Michael Fassbender in 'Hunger' (2008)


Nel 2008 con Hunger fa il passo decisivo verso il cinema che ormai covava da troppo tempo nell’esperienza da videoartista. 
Riesce a presentare il suo primo lungometraggio al Festival di Cannes e vince la Camera D’Or registrando per settimane il tutto esaurito nei cinema di Londra, Parigi e Berlino. 
In Italia Hunger arriverà in sala in grave ritardo, nel 2012 grazie alla BIM.
Per fortuna la stessa sorte non è toccata a Shame grazie al successo alla  68° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia e la meritata Coppa Volpi all’attore Michael Fassbender. 
Con Hunger si affronta un’altra pagina nera della Gran Bretagna. La protesta dei detenuti dell’IRA nel carcere di Long Kesh contro il mancato riconoscimento dello status di prigioniero politico da parte del governo britannico. Ma il regista, oltre a questo, si sofferma ampiamente sugli ultimi giorni di vita dell’ attivista nordirlandese Bobby Sands,  morto dopo 66 giorni di sciopero della fame. 
Una morte tutta raccontata e sentita attraverso la sofferenza del corpo, protagonista straziante. 
L’orrore e la violenza della vita carceraria vengono  ricomposti in irreprensibili e glaciali inquadrature ricercando inusuali posizionamenti della videocamera. 
McQueen sperimenta e agisce sugli opposti.  
Alterna e unisce una componente tecnica ricercata, fredda e cronistica con una penetrante componente emotiva. 
Scarnifica i corpi e la storia da ogni elemento didascalico, narrativo, morale, politico, sociale. 
Rimane la scelta estrema di un uomo che difende il suo ideale contro un sistema e ad un certo punto diventa solo la dolorosa cronaca della morte di un essere umano nel suo lento e consapevole spegnersi.  
Affida tutto il suo film alla successione d’immagini private quasi completamente di parole. Quindi la riuscita dipenderà solo dalla loro capacità di comunicare efficacemente la vicenda allo spettatore. 
Il meccanismo sembra funzionare alla perfezione anche se a circa metà film il regista, dopo tanto mutismo, stupisce inserendo un intenso dialogo ininterrotto di 22 minuti tra Bobby Sands e il parroco della sua città. 
La ripresa rimane fissa per quasi tutto il tempo facendo sentire lo spettatore un intruso nella stanza, quasi un invasore dell’intimità tra i due personaggi.
Attraversiamo le varie fasi della contestazione che inizia con la blanket protest, proseguendo con la dirty protest in cui i detenuti spalmano gli escrementi sui muri delle celle . 

'Hunger' di Steve McQueen


Il lerciume sulle pareti diventa una spirale astratta che si dissolve sotto un getto d’acqua e l’immagine dell’urina che scorre sotto le porte è trasformata in un’inquietante scena metafisica. 
Infine arriviamo allo sciopero della fame, in cui il corpo si ospedalizza e diventa quello di un malato terminale che abbandona lo scafandro e ormai viaggia libero con la mente tra passato, brevi risvegli nel presente e visioni dell’aldilà. 
Come un Caravaggio morente sulla spiaggia di Porto Ercole o un Van Gogh agonizzante in un campo di grano  ad Auvers-sur-Oise. 
Sopra il corpo di Bobby Sands la videocamera ha  le movenze e i rumori di un corvo che sbatte le ali. Annuncia la fine ed è un tramite tra il regno dei vivi e quello dei morti.
Dopo un così straordinario esordio con Hunger c’era molta attesa per il secondo lungometraggio Shame che ha confermato il talento registico di Steve McQueen  per poi svoltare in una produzione hollywoodiana con 12 Years a Slave (2013) basato sulla storia vera di Solomon Northrup, un uomo di colore rapito e venduto come schiavo in una piantagione di cotone in Louisiana, da dove fu liberato solo dopo dodici anni. 
Un’altra tematica di forte richiamo sociale e un’altra storia che parla di una vita sotto costrizione. 
In Shame il protagonista è solo apparentemente un uomo libero e dall’ esistenza realizzata. 
Ha un volto familiare.  
E’ giovane e bello, vive in un loft al centro di New York, ha un buon lavoro ma in realtà si trova in una prigionia mentale; schiavo della sua dipendenza al sesso che condiziona e scandisce, in modo sempre uguale, tutte le sue giornate. 
Dall’America arriva l’80% del porno che si consuma in tutto il mondo. 
In Italia i sessuomani sono più di un milione e mezzo. 
Un fenomeno diffusissimo di consumatori compulsivi di erotismo industriale tra internet, sesso a pagamento, club privè ecc.. 
Una vera e propria patologia che isola dalla realtà e determina una frigidità morale ed emotiva. 

Michael Fassbender in 'Shame' 


Brandon è solo e vive in continuo stato d’allarme per nascondere la sua 'vergogna'. 
Il suo corpo cerca l’oblio nel sesso ma è disperatamente insaziabile di un appagamento che non raggiunge mai. 
Quando irrompe l’ospite inatteso, a spezzare la regolarità dei suoi rituali giornalieri, entra in crisi. 
Il confronto con la sorella riapre profonde ferite del passato da cui derivano tutti i mali. Mentre Brandon soffre di una dipendenza sessuale Sissy, in opposizione al fratello,  soffre di una dipendenza sentimentale così devastante che, quando rimane delusa o si sente abbandonata, genera impulsi suicidi. 
Entrambi, nel corso di una notte terribile ma risolutiva, arriveranno al limite dell’autodistruzione. 
Lui, nel tentativo di soffocare emozioni e sentimenti che ormai prevaricano senza più argini, precipita in un’ ouverdose infernale di sesso estremo mentre lei decide di togliersi la vita ma non sarà la fine per nessuno dei due. 
L’occhio di McQueen resta addosso sul protagonista per quasi tutto il film con invasivi primi e primissimi piani. 
Vuole creare un legame intimo tra lo spettatore e il personaggio per rafforzare l’effetto empatico quando il dramma comincerà a crescere. 
Svela tutti gli atti nascosti della sua dipendenza, coglie le lacrime sul suo viso mentre ascolta cantare la sorella in un locale. 
Ed è ancora il corpo  punto di vista, punto di partenza, punto di rottura; luogo di contatto e di separazione tra il sé e il mondo. 
L’altra protagonista  è New York con i suoi asettici interni di uffici e camere d’albergo da cui Brandon, inscatolato nel suo solipsismo, osserva l’esterno dall’ enorme finestra/schermo. 
Dialoghi ridottissimi come in Hunger e immagini molto curate sul filo del puro compiacimento estetico. 

'Shame' di Steve McQueen


C’è un po’ il sentore della patinatezza pubblicitaria ma non si rimane a quello stadio raggelante come accade nel film A Single Man di Tom Ford  che chiuso nell’esasperante ricercatezza formale, non riesce a rendere credibile e coinvolgente il dolore del protagonista nonostante la grande performance attoriale di Colin Firth. 
In Shame questo rischio di esporre sterile materia filmica auto-contemplativa si sfiora ma poi c’è tutto un mondo psicologico che esplode non rimanendo raggelato in superficie.

Chiwetel Ejiofor e Lupita Nyong'o in '12 anni schiavo'

In 12 anni schiavo McQueen cambia, affronta un film corale, molto meno sperimentale, mirato alla vittoria del premio Oscar e l’intento riesce.
Il film trionfa vincendo tre statuette: Miglior film, Migliore attrice non protagonista, Migliore sceneggiatura non originale.

Pur con tutte le sue edulcorazioni e didascalismi 12 anni schiavo è un film potente e tra i pochi a restituire un punto di vista così incisivo e autentico sulla disumanità legalizzata dello  schiavismo negli Stati Uniti d'America.
Penetra con il lirismo delle immagini e la sua drammaticità portata al culmine.
Coinvolge, con sottile sensibilità, lo spettatore dentro ogni scena lasciandolo libero di giudicare quello che vede. 
Ci trasporta all’interno della vicenda con inquadrature strette, sempre ad un palmo dai personaggi con pochi e statici respiri panoramici a camera fissa.
La struggente bellezza di una natura incontaminata e illimitata ma impassibile al dramma umano. 
Sempre vista dietro invisibili sbarre. Non può dare nessuna gioia o sollievo. 
Come in Malick e in Weir c’è un creato che scandisce tranquillamente il passare del tempo, mentre tra gli uomini si consumano i crimini più terribili.
Una tacita complice perché nei suoi meandri di fitte foreste, paludi, alberi secolari avvengono impiccagioni, sparizioni, stupri, torture, suicidi. 
C’è una violenza molto esplicita mostrata allo spettatore in lunghi piani-sequenza in cui lo scorrere del tempo sembra interrompersi di colpo, per isolare la sospensione del martirio.
Una crudeltà che viene analizzata nelle sue sfumature, nelle conseguenze provocate non solo sugli oppressi ma anche sugli oppressori. 
Solomon Northup ci fa attraversare tutti i ‘diversi’ gironi infernali dei 12 anni in cui è stato privato della sua libertà e dei suoi diritti umani.
Ridotto a una proprietà, un 'bene schiavo' da disporre a piacimento per ogni schiavista alternatosi nella sua terribile vicenda che inizia con un rapimento per ritrovarsi come merce umana da vendere ad un'asta, fino alle piantagioni/ lager a cielo aperto. 
In McQueen resta costante come filo conduttore della sua ricerca, tra arte e cinema, l’impegno sociale e l’indagine psicologica sullo stato di oppressione che può nascondersi nel quotidiano.
Il corpo indiscusso protagonista di ogni inquadratura.  
Su di esso il malessere del vivere diventa infernale epifania organica. 
Un’ armatura sacrificale contro un potere sociale/economico/politico aberrante  che infine lascia ogni gravità e si smaterializza per sublimarsi in rinascita e quindi nuova speranza.
Sulla scia dell’impegno civile si prosegue con Widows (2018) per arrivare alla miniserie di cinque puntate Small Axe del 2020 per BBC One che racconterà fatti reali che hanno coinvolto la comunità nera distintasi in varie epoche per coraggio e capacità di combattere razzismo e ingiustizie.



'Small Axe' di Steve McQueen


Le prime due puntate di Small Axe saranno presentate alla Festa del Cinema di Roma 2020. In tale occasione al regista britannico verrà consegnato il premio alla carriera.
Il cinema di Steve McQueen  racconta di prigionie restando, a sua volta, chiuso in un rigido regime tecnico di repressione, dove tutto è controllo. 
Un equilibrio perfetto di tempi, forme, colore, suono  per poi innescare l’evasione attraverso un potente congegno emotivo.

sabato 26 settembre 2020

UN' INEDITA ASIA ARGENTO: 'ISOLE', di Stefano Chiantini

 

ISOLE (2011) di Stefano Chiantini - Visibile su CHILI


Nel silenzio i rumori dell’anima
di Maddalena Marinelli

L’isola oltre ad un luogo geografico è una condizione mentale. 
Una scelta o un’imposizione esistenziale. 
L’ultimo lembo di terra in cui rifugiarsi, separandosi da tutto il resto, lasciandosi circondare dalle acque in cui passato e presente pacano i loro influssi. 
Fuori dal tempo e dal mondo, in una casa canonica su una piccola isola, vivono un anziano prete e una ragazza che ha deciso di non parlare più con nessuno.
Un grande dolore, legato al suo passato, ha divorato tutto anche la sua voce.
Nella loro semplice vita, fatta di silenzio e piccole ritualità quotidiane, arriverà un immigrato clandestino come una ‘nuova onda’, portatrice di sensazioni molto contrastanti tra gli abitanti della piccola comunità.
Isole di Stefano Chiantini racconta quel crudele e immotivato disprezzo nei confronti della diversità ma anche il grande valore delle relazioni umane quando siamo disposti a metterci in gioco. 
La capacità di accettare l’altro così com’è.
Don Enzo, Martina ed Ivan vengono condannati ed emarginati per malattia, scelte, diversa etnia. 
La gente che li circonda non si fa scrupoli, vengono derisi ed offesi pubblicamente. Nessuno si preoccupa davvero di capire e stabilire un rapporto autentico con loro. L’anziano prete, reduce da un ictus, non è considerato più in grado di intendere e volere. La ragazza, che per sua scelta decide di non parlare, è bollata come ‘la pazza’ da tutto il paese e l’immigrato clandestino è visto come una specie di pericoloso usurpatore, solo perché straniero.
Per capirsi le parole non sono indispensabili. 
Queste tre isole si accettano a vicenda e nel loro piccolo e momentaneo arcipelago riusciranno a generare sentimenti veri d’amicizia, solidarietà ed amore.

Asia Argento e Ivan Franek nel film 'Isole'


Tre persone totalmente diverse che si rispecchiano nella stessa condizione di solitudine.
Il bisogno di ritrovare una complicità e una comprensione nel contatto umano, nell’incontro che può cambiare la vita. 
In Isole poco importa se i legami instaurati sono destinati crudelmente ad essere interrotti perché ‘le terre recuperate’ rimarranno impossibili da perdere. 
Nel finale rimane sospeso solo un dolce e leggero dolore.
I rapporti umani che stanno nascendo inevitabilmente si relazionano col luogo, con la natura dell’isola e i suoi elementi. 
La dimensione di ‘quest’area staccata’ è culla che protegge ma anche gabbia da cui non si può fuggire. 
Malinconico  specchio di stati d’animo e di sensibilità incomprese. 
Proiezione dell’ostilità dei suoi abitanti.
La sua quiete può essere confortante ma allo stesso tempo diventare terribilmente desolante, evocando tutte le ombre nascoste nell’inconscio. 
Nel metaforico contatto con le api c’è il rispetto reciproco, la cura, l’accettazione contro ogni forma di prevaricazione, che può solo distruggere. 
Nell’acqua puoi vedere le persone che ami, dice Ivan a Martina.

Asia Argento e Ivan Franek in 'Isole' di Stefano Chiantini


Come in L’amore non basta saltiamo sopra un treno in corsa. Si è subito catturati. 
La regia di Chiantini ci catapulta immediatamente nella vita dei protagonisti. 
Insegue le figure umane in stretti vicoli e claustrofobici/oscuri vani domestici. Nonostante la forte presenza dell’ambiente esterno poche volte l’inquadratura si apre verso di esso,  rimane stretta intorno ai personaggi, ai volti, ai corpi, alle azioni. 
Così l’isola c’è ma diventa anche un’ombra, un misterioso personaggio fuoriscena che incombe senza essere visivamente troppo presente.
“Quello che più mi interessa mostrare sono le relazioni tra le persone, specie quelle che per vicissitudini diverse si sono discostate da ciò che oggi viene definito ‘normale’, ritrovandosi così automaticamente ai margini della società.” (Stefano Chiantini)
Regia e sceneggiatura operano secondo detrazione. 
A volte si scivola in un' assenza, come se entrasse in azione un pilota automatico che segue semplicemente gli eventi.
Con pacata fermezza, l’immagine viene spogliata da qualsiasi zavorra ammaliatrice esplorando, senza enfasi, nelle ferite della nostra sfera intima. 
Ciò che resta è l’essenza.
Centrale nel film è il personaggio di Martina, una creatura isolata sulla stessa isola ma in contatto con gli elementi naturali che la circondano. 
Sull’eco lontano di Ada di Lezioni di Piano è fragile, impetuosa, misteriosa, caparbia, senza età. 
Sente di doversi aprire alle inaspettate emozioni che stanno arrivando. 
Il sentimento per Ivan lentamente muterà quella sua eterea immagine da ragazzina in donna consapevole dei suoi desideri e  della sua femminilità.

Ivan Franek nel film 'Isole' di Stefano Chiantini


 “Mi sono innamorata subito di questo personaggio. L’idea di comunicare ad un livello più profondo delle parole. E’ stata una sfida dell’anima” (Asia Argento)
Ivan entra nella vita di Martina in punta di piedi restandone per quasi tutto il tempo a circoscritta distanza. 
Osserva, intuisce, condivide. 
Nonostante la sua difficile condizione, il transito identitario e le aspettative lavorative deluse è un personaggio dotato di una disarmante quiete interiore. 
Una bella solidità spirituale che conquista e attrae la ragazza.
L’altra faccia di Tobias Horvath, il tormentato immigrato dell’Europa dell’Est di Brucio nel vento di Silvio Soldini, interpretato sempre da Ivan Franek.
Si fa naufragio verso qualcosa di intimo  ma allo stesso tempo universale.

sabato 12 settembre 2020

'VOLEVO NASCONDERMI', di Giorgio Diritti

 

VOLEVO NASCONDERMI 


L’Essere sbagliato
di Maddalena Marinelli

Antonio, Anton, ‘Toni al Matt’, “El Tudesc”.
Costa, Laccabue e poi Ligabue.
Quando sei solo, povero, malato e inerme anche il tuo nome, la tua identità viene calpestata, si può storpiare, può sparire.
 «Tu non meriti di esistere» gli diceva il maestro della scuola elementare in Svizzera.
Antonio Ligabue invece non è sparito e non sarà dimenticato. 
Rimarrà un nome indelebile nella storia dell’arte.
Antonio bambino, Antonio ragazzo, Antonio adulto.
In un susseguirsi di sbalzi temporali tra passato, presente e futuro, seguiamo le sfortunate vicende di un uomo segnato da continui soprusi. 
Considerato ‘diverso’ perchè uno storpio, un ritardato, uno straniero comunque e ovunque.
Disadattato, senza una fissa dimora, senza una famiglia.
L’infanzia in Svizzera segnata dalla povertà e dall’abbandono della madre biologica.
La malattia. Un corpo marchiato dal rachitismo e da problemi neurologici che gli provocano crisi maniaco-depressive e atti di autolesionismo che determineranno numerosi ricoveri in istituti psichiatrici.
Era convinto di avere dentro di sè dei demoni e, per questo, si feriva le tempie per farli uscire.
Rifiutato dalla madre, in seguito abbandonato dalla famiglia adottiva, espulso dalla civilissima Svizzera che lo scarica a Gualtieri dove arriverà nell’Agosto del 1919.
Anche in questo piccolo paese della Bassa, Antonio verrà emarginato, bollato sempre come un forestiero e un povero matto.

Elio Germano in 'Volevo nascondermi' di G. Diritti


Uno storpio ometto gozzuto che fa paura a donne e bambini.
Irascibile, prepotente, diffidente ma capace di gesti gentili e generosi se avvicinato ed accolto nel modo giusto. 
Dotato anche di un certo umorismo.
Decide di vivere per molto tempo lontano dalla gente, tra la riva del Po e il bosco, dove la sua casa è una fatiscente capanna.
Respinto dalla società si rifugia nella natura ed entra in simbiosi con gli animali a cui non interessa giudicarlo o vessarlo.
Solo e non amato, condannato a non poter avere affetto e nemmeno rapporti sessuali.
A volte si veste con abiti femminili per avere l’illusione del calore di una donna.

'Volevo nascondermi' di Giorgio Diritti


In quell’era fascista di ordine e disciplina Ligabue è un ribelle ‘al di fuori’ di qualsiasi sistema.
L’incontro con lo scultore Mazzacurati, che intuisce il suo particolare talento artistico, lo conduce verso un’espressione che gli permetterà quell’unica via di fuga per esternare ed esorcizzare tutto il suo malessere interiore.
“Quando disegna appare rasserenato”; le bestie diventano i suoi soggetti preferiti. Diceva: ‘Io so come sono fatti anche dentro’.
Felini, rapaci, rettili, roditori in un trionfo di vividi colori, pennellate veementi e corpose, forme contorte e possenti tra naturalismo e visionarismo.

Elio Germano in 'Volevo nascondermi'


E’, inconsapevolmente, un autentico performer.
Esegue quel suo ‘rituale sciamanico’ davanti alla tela bianca; una sorta di danza arcaica in cui imita i movimenti e i versi delle belve prima di cominciare a ritrarli.
Lo fa per caricarsi di energia, per favorire il buon esito dell’atto creativo.
Antonio si considera un grande artista e avrà ragione.
La sua arte, nell’incredulità degli abitanti di Gualtieri, comincia ad essere apprezzata, fino al raggiungimento di un certo benessere economico ma soprattutto di una rivincita sociale.
Un documentario, una mostra a Roma, i premi, i numerosi articoli che lo elevano nell’olimpo degli artisti.
Toni compra molte motociclette, assume un autista per farsi portare in giro sulle sue tre macchine, si fa confezionare abiti costosi.

Elio Germano in 'Volevo nascondermi' di Giorgio Diritti


‘Guardatemi!’ questo volto non è piacevole, la mia testa è bitorzoluta, ho il gozzo, ho il naso sfregiato ma anch’io esisto, anch’io valgo.
Giorgio Diritti attraverso la sua poesia visiva fatta di parole setacciate con rigore, di documento antropologico, di religiosi silenzi nel rapporto con i luoghi, riesce come pochi a cogliere le inquietudini, i conflitti del nostro vivere anatomizzando il nucleo della comunità in cui si ritrova tutta la gamma dei sentimenti e delle azioni umane e quel  senso di appartenenza, di storia, di identità che stiamo lentamente perdendo serrandoci nell’individualismo.
Integrazione e diversità. 
I suoi personaggi sono sempre, in modi diversi, ‘profughi’ alla ricerca di un luogo a cui appartenere.
Oppure visti come ‘invasori’ che minacciano la collettività e per questo rifiutati nell’inserimento sociale.
Un cinema che procede su quella sensibile traccia di confine tra integrazioni, usurpazioni, separazioni. 
Una visione su quella 'linea d'ombra' dove tutto, in un attimo, può cambiare nel bene o nel male.
In tutto questo la vicenda di Ligabue sembra collocarsi perfettamente.
Il regista sceglie una struttura anti-narrativa; il film procede secondo salti temporali che ricostruiscono la tormentata vita di Ligabue con l'aggiunta di alcuni innesti onirici.
Una scelta audace e da molti incompresa, giudicata dispersiva, mancante di una visione d’insieme e di un punto d'accordo.

Elio Germano in 'Volevo nascondermi' di Giorgio Diritti


In Volevo nascondermi si incede seguendo un moto emotivo, il flusso dei ricordi dello stesso artista che li evoca in un amarcord sregolato ma di coinvolgente intensità.
Elio Germano non interpreta ma diventa integralmente Ligabue, restituendo sentitamente sia quell’ interiorità ruvida, tormentata, devastata dai continui abbandoni e maltrattamenti, sia quella fisicità deforme, segnata dalla malattia.
Diritti fa un lavoro accurato nella scelta dei figuranti e dei comprimari, volti 'veri' che sembrano usciti da un film di Ermanno Olmi o Bernardo Bertolucci.
Un mondo agreste che silenziosamente, nel perpetuo ripetersi delle sue umili mansioni quotidiane, circonda e osserva tutte quelle eccentricità di Ligabue mentre dipinge, plasma nella creta del Po le sue fiere, inveisce contro qualcuno che lo ha offeso, scorrazza con la sua fiammante motocicletta rossa in quella ruralità avvolta da colori cupi che sulle sue tele diventato irrealmente infuocati.
Volti che comunicano perfettamente stati d’animo essenziali o un’ incantevole apatia.
 
“Per tutti gli storti, tutti gli sbagliati, tutti gli emarginati, tutti i fuori casta del mondo..”
(Elio Germano in occasione della sua vittoria dell’Orso d’Argento come migliore attore alla Berlinale 2020 per il film ‘Volevo nascondermi’)