lunedì 20 agosto 2018

LA FINE DEL MONDO #5 - “Il sacrificio del cervo sacro”, di Yorgos Lanthimos


IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO



Gruppo di famiglia all’inferno
di Maddalena Marinelli

Una lenta decomposizione dell’animo umano nella sofferenza e nell’apatia.
Un’umanità tecnologicamente avanzata condannata all’imbarbarimento, alla negazione o perversione dei sentimenti.
L’uomo non sa più amare. Il cuore è inaridito, ridotto alla meccanica di un muscolo.
Lanthimos ci parla di un annientamento interiore che deflagra sommessamente e a piccoli morsi divora il genere umano.
Come in Kynodontas ritorna la corruzione del nucleo famiglia, ma questa volta l’orrore, la devastazione arriva da un’entità superiore, non da malformazioni generatesi al suo interno.
Comunque sia, il male dilaga dentro e fuori, non c’è scampo per l’essere umano che non può scappare di fronte alle conseguenze delle sue azioni e implacabili sono i danni provocati dalle complicanze psicologiche delle relazioni familiari.
Il Dottor Steven Murphy ha causato la morte di un suo paziente e secondo Martin, il figlio della vittima, l’uomo dovrà pagare sacrificando un suo congiunto.
Il perfetto nucleo familiare borghese, anaffettivo e raggelante nella sua ritualità quotidiana, viene sconvolto da un ragazzino che gioca a fare Dio.
All’interno di un moto circolare, richiamato continuamente, tutto dovrà tornare ad un ordine.
Come nel mito greco la divinità offesa pretende giustizia (vendetta?) per il torto compiuto dall’uomo.
La famiglia Murphy si ammala, si sgretola, i suoi componenti si mettono uno contro l’altro. La crudeltà innescata da Martin scopre altre e peggiori crudeltà.
In questo folle scenario la madre stabilisce che uno dei due figli è sacrificabile poiché se ne può sempre generare un altro.
La figlia maggiore già medita d’impossessarsi di alcuni oggetti del fratellino che reputa spacciato. 
Il padre cerca di capire quale dei due figli sia più opportuno sacrificare in base al rendimento scolastico.

"Il sacrificio del cervo sacro" (2018) di Yorgos Lanthimos

Un cinema senza speranza e senza risposte.
Disturbante, surreale, grottesco ma allo stesso tempo una chiarissima esposizione dello stato di allarme emotivo che avvolge la società contemporanea.
Lanthimos produce pene ma è come l’ambasciatore che non ne è il diretto responsabile.
La sua regia colpisce come il boia, rimanendo sempre ‘al di sopra’ di ogni avvenimento; per questo si congiunge al cinema di Lars Von Trier che va a scavare nel male più profondo dell’umanità tra odio, sacrificio, tortura e vendetta, scardinando e ribaltando il punto di vista su ogni certezza etica, gettando lo spettatore in un baratro senza risalita.
Evidente, ancor di più, il legame con Haneke e il suo cinema della crudeltà; rigoroso nell’analisi di quell’oscuro mondo sommerso che si tende a nascondere, negando le conseguenze di un passato storico terrificante che appartiene a tutti.
L’Europa non troppo tempo fa è stata lo scenario di dittature, stermini di massa programmati, stupri etnici, esecuzioni arbitrarie, reclusioni e lingiaggi di persone omosessuali. Orrori che non sono così lontani come pensiamo ma dietro l’angolo pronti a ripresentarsi se sottovalutiamo certi segnali, lasciamo salire al potere determinate persone, viviamo in una comoda e voluta inconsapevolezza.
Il male dilaga per colpa di un Dio che manovra (con un misterioso fine?) i nostri destini, oppure è tutta opera dell’uomo e del suo spiccato talento a fare un uso abominevole del libero arbitrio? O come asseriva Nietzsche Dio è morto e il mondo è solo un caos irrazionale?
Quali sono le origini del male? Dove germinano i nostri istinti maligni?
“Abbiamo ricevuto dalla nostra famiglia le idee di cui viviamo così come la malattia di cui moriremo.” (Marcel Proust)
Il microcosmo famiglia è inferno quanto paradiso.
E’ la fucina dove forgiamo i parametri esistenziali. Il primo nucleo in cui sviluppiamo i rapporti umani, definiamo la nostra identità, in cui sperimentiamo tutta la gamma dei sentimenti e dove avvengono i traumi che possono condizionarci per tutta la vita.
Un sistema che protegge e rafforza oppure abbandona, abusa e distrugge.
Molti cineasti hanno preso in esame l’annientamento della famiglia.
Oltre ad evidenziare e sviluppare quei moti di violenza ed odio che si possono attivare al suo interno è un disfacimento che va inteso come simbolo di una necessaria emancipazione, di un rinnovamento sociale. Rottura col vecchio per affermare il nuovo.
Il bersaglio preferito da Buñuel, Chabrol, Monicelli, Scola o il già citato Haneke è esattamente la famiglia borghese che dal Sessantotto ad oggi diventa organismo da sconsacrare in tutti i suoi tipici cliché di vanità, materialismo, bigottismo.
Rovinare la recita dell’idillio borghese.

"Funny Games" (1997) di Michael Haneke 

In Funny Games un malefico duo di sterminatori di bell’aspetto entra all’interno dell’ovattato guscio di una casa borghese per condurre una lenta, perversa, implacabile mattanza a scapito di un’intera famiglia upper class tenuta in ostaggio. 
Una violenza estrema e apparentemente insoluta che quando finisce ricomincia nella villetta accanto. 
Uno sterminio programmato di benestanti in vacanza.

"Teorema" (1968) di Pier Paolo Pasolini

L’elemento esterno che infiltrandosi  scardina ogni certezza. 
In Teorema, di Pier Paolo Pasolini, il sistema famiglia viene sconvolto da un affascinante e misterioso ospite che distrugge la vacua tranquillità di ogni suo componente per una rinascita spirituale.
Una villa isolata in cui macera un’annoiata esistenza.
Un’aria di morte che diventa insopportabile; una pericolosa estraneità alla normalità della vita.

"I pugni in tasca" (1965) di Marco Bellocchio

Nel film I pugni in tasca il giovane Sandro libera la sua rabbia e decide di eliminare sistematicamente i suoi congiunti. 
Rimuovendo ogni vincolo è sicuro di conquistare una libertà, un cambiamento ma la sua infantile scelleratezza e il peso di quei sacrifici di sangue lo bloccheranno definitivamente nella sua casa/tomba.

"La Cérémonie" (1995) di Claude Chabrol

Il salotto borghese, luogo simbolo della vita sociale e della convivialità, diventa un ammazzatoio. L’altare sacrificale dove si consuma l’ultimo atto, l’atto dell’esecuzione.
Vite ai margini, un passato di privazioni e abusi, orrori taciuti, tare mentali mai sanate.
Un’altra coppia malefica. La domestica Sophie insieme alla postina Jeanne in La Cérémonie di Claude Chabrol stermineranno un’intera famiglia a fucilate. 
Un folle ed estremo gesto. 
Nella loro mente malata, queste due donne, si vedono come delle vendicatrici  di ogni umiliazione, sopruso, atto di superbia compiuto dalla classe agiata nei confronti di chi considera inferiore a loro.

"Le colline hanno gli occhi" (2006) di Alexandre Aja

Esseri umani resi deformi da test nucleari condotti dall'aeronautica degli USA, condannati a vivere nel deserto, in una miniera abbandonata, diventeranno feroci predatori.
Mostri generati dal progresso e dal disprezzo.
In Le colline hanno gli occhi il nato diverso, il mostruoso deriso e condannato all’emarginazione va ad attaccare, torturare e divorare la tipica famiglia americana.
In una polverosa soffitta una scatola di home movies attende nuove vittime.
Terrificanti filmini in Super8 di vacanze, natali, compleanni finiti con impiccaggioni, annegamenti, roghi, decapitazioni.

"Sinister" (2012) di Scott Derrickson

In Sinister il demone videomaker Bughuul manipola dei bambini per attuare terrificanti massacri a scapito dei loro genitori e fratelli, immortalando il tutto su pellicole che serviranno di volta in volta come esca, perché è tramite l’immagine che l’entità malvagia effonde il suo potere.
Dopo tali sacrifici di sangue, la perfida divinità pagana, porta i prescelti nel suo regno per cibarsi delle loro anime.
I bambini uccidono le loro famiglie per entrare in una dimensione immaginaria di lenta deprivazione.
Una folgorante metafora horror sul pericolo del potere di suggestione e sull’abuso  di immagini (internet, videogame, tv, ecc…). 
Ogni giorno bambini e adolescenti subiscono un incontrollato bombardamento visivo isolati nel loro spazio virtuale, allontanandosi sempre di più dalla realtà, in preda alla dipendenza digitale.
Siamo prigionieri di interni svuotati, di emotività perdute, di identità simulate verso il declino in una violenza intesa come unica possibilità di affermazione rimasta.