giovedì 31 luglio 2014

LA FINE DEL MONDO #3: Abel Ferrara, quell'eterno regno del male





Devastazione contemporanea
di Maddalena Marinelli

“L’importante è agitarsi” (Abel Ferrara)

L’umanità è immersa nel dolore. Il cinema di Abel Ferrara sputa sangue.
Una perenne apocalisse sociale in cui uomini incattiviti si divorano a vicenda senza più nessun ordine e controllo. Prostitute, barboni, trafficanti di droga, piccoli delinquenti, killer, artisti in crisi calati nelle tenebre senza alcuna luce che possa rischiarare, ripulire l’orda criminale.
Reietti della società alla ricerca di se stessi in una labirintica metropoli ostile, straripante di crudeltà.
Una violenza che anche quando non esplode si respira nell’aria, per le strade e infetta tutto quello che tocca.
Anche i buoni, dopo aver subito soprusi, diventano spietati carnefici come la timida e dimessa Thana che si trasforma in un’implacabile giustiziera della notte in L'angelo della vendetta.
Urgenza convulsiva. Una regia sporca,  istintiva con spolverate ironiche.
Tutto pulsa in visioni potenti, abissali, senza compromessi.
Un male tellurico che inghiotte l’uomo. Un male che ha una fantasia illimitata.
La fede appare ad intermittenza. Forse ti salva, forse no ma offre una speranza di redenzione.
Intanto le anime marciscono e la dannazione si espande come un virus mortale:  “La nostra droga è il Male e la nostra propensione al Male risiede nella nostra debolezza. Non è cogito ergo sum, ma pecco ergo sum” (The Addiction, 1995)
In The Addiction la protagonista Kathleen, dopo  essere stata morsa da un vampiro, diviene consapevole che la vita è anzitutto aggressione e volontà di annullamento di ogni altro essere.

"4:44 Last Day on Earth" (2011) di Abel Ferrara

Un male che si deve compiere fino in fondo con poche possibilità di essere estirpato.
Paradossalmente proprio in 4:44 Last Day on Earth, il film in cui Ferrara affronta più esplicitamente la fine del genere umano, alleggia un’atmosfera meno cupa del solito. L’amore ci salva dalla catastrofe e il drammatico fato viene accettato serenamente forse perché è la vita ad essere il vero inferno e nulla potrà essere peggio di questo.
I protagonisti hanno la consapevolezza che tutto finirà tra poche ore ma non si scatena nessuna reazione aggressiva. Anzi, la cupa metropoli ferrariana stracolma di violenza, sangue e vendetta tace in un rintanamento spirituale.
L’attesa del totale annientamento quieta ogni impulso malvagio e obbliga alla riflessione azzerando l’azione.
Ma per Ferrara è solo un intervallo; un respiro in superficie per ripiombare il prima possibile, ancora più ferocemente, nell’abisso della dissipazione.
In Welcome to New York il corpo bulimico di  Devereaux divora e distrugge senza sosta.

"Welcome to New York" (2014) di Abel Ferrara

Dopo la fine ricomincia l’inferno. E’ questa la vera apocalisse a cui l’uomo non può sottrarsi: il perpetuarsi della perdizione.
“Le cose non cambieranno mai” dice Deveraux, “nessuno vuole essere salvato davvero!”. Una metempsicosi del cattivo tenente con ossessioni ancora più turpi. Dall’atto autodistruttivo si passa al crimine sul prossimo.
La presunzione del potente a cui nulla può essere negato.
Il sopruso sulla donna, sulla famiglia, sulla società, sulla libertà, sullo stesso cinema.

Willem Dafoe in "Pasolini" di Abel Ferrara

Il turbine del male è davvero senza fine? Dopo tutti i gironi infernali cosa profetizzerà l’atteso Pasolini di Ferrara? Quell’umanità appestata, quel malsano vivere, quella disperazione, quel Pasolini che in versione psichedelica e splatteriana si è pur sempre rivelato in tutto il cinema ferrariano.
Siamo tutti in pericolo.
“I vari casi di criminalità che riempiono apocalitticamente la cronaca dei giornali e la nostra coscienza abbastanza atterrita, non sono casi: sono, evidentemente, casi estremi di un modo di essere criminale diffuso e profondo: di massa.”
(Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane 1976)