Le dernier combat (1983) di Luc Besson |
Un mondo senza parole
di Maddalena Marinelli
Il Pianeta è stato raso al suolo da una catastrofe imprecisata.
In
una distesa desertica i sopravvissuti sono in continuo stato di guerriglia per
conquistarsi i pochi beni preziosi: cibo, acqua e le rarissime donne che
vengono custodite/segregate sotto chiave.
Gli
uomini non riescono più ad emettere parola a causa di un veleno diffuso
nell’aria. Regrediscono ad uno stadio primitivo trasformandosi in belve
violente, in scalcinati guerrieri tra medioevo ed età della pietra.
Un
film che alterna poesia, dolcezza,
crudeltà e ironia in cui la parola è completamente assente. Tutto viene
affidato all’immagine, alla colonna sonora di Eric Serra, ai volti intensi
degli attori Pierre Jolivet, Jean Bouise, Fritz Wepper e naturalmente alla
prorompente fisicità di Jean Reno che diventerà una presenza costante in tutti
i film successivi di Besson.
Personaggi
beckettiani rassegnati o in cerca di rivincita in un mondo dove l’uomo sembra rimasto completamente solo
e non esiste più un Dio da invocare.
Il
protagonista della vicenda conserva ancora un barlume di speranza. Rispetto
agli altri, che rassegnati si lasciano andare all’imbarbarimento, lui cerca di
reagire. Non vuole dimenticare la sua umanità e sogna di riavere un giorno la
sua voce.
La
banda di disperati, che vive nelle macchine in mezzo al deserto, è ridotto ad
un branco di lupi affamati. Una piccola tribù che s’inventa sadiche regole come
quella di sostituire il denaro con dita mozzate.
Il
dottore, ultimo emblema del sapere umano, si è barricato nella sua clinica e si
consola disegnando graffiti e accudendo la bella donna che tiene prigioniera
nel labirintico sotterraneo. Il bruto, con la sua ceca ferocia, rappresenta
tristemente lo stadio finale di questa regressione morale e sociale.
Uno
schema narrativo chiaro e conciso, grande suggestione delle locations che
vengono raccontate con estrema cura per il dettaglio e con l’ausilio di piccole
invenzioni. L’eccezionalità del film è quella di riuscire a rendere credibile e
autetico un mondo post-apocalittico senza l’ausilio di effetti speciali. Non mancano le scene
d’azione, scandite dal jazz-rock di Eric Serra, in cui il 23enne Besson dimostra già la sua grande padronanza di
ripresa.
Scarno,
realizzato con poche risorse economiche ma con una grande intensità visiva e
ideologica. Il primo lungometraggio di Luc Besson. Sono già ben evidenti quei
tratti tipici della sua regia energica, lucida e amara in cui si ripete il
leitmotiv di protagonisti buoni che si ritrovano a compiere nefandezze imposte
da un sistema carogna. Per ogni film Besson studia un involucro estetico molto
accurato. Segue freddamente uno schema registico che scandisce le storie
secondo i livelli dei video games per ristabilire un senso umano di realtà solo
nel finale. L’inafferrabile Besson che salta da un progetto all’altro senza
seguire una linea precisa. Si divide tra l’irresistibile piacere di curare solo
la forma e l’esigenza di esprimere un contenuto.
Si diverte a fare un cinema più commerciale e ultimamente
anche i film per ragazzi. Poi c’è l’altra versione di Besson, attualmente
sparita, quella dei film più intimisti e autobiografici come Le Dernier Combat, Le grand bleu, Angel-A,
Atlantis. (Saggio di Maddalena Marinelli tratto dal catalogo della rassegna Finimondi)
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