Autoritratto di
signora in un interno
di Maddalena Marinelli
“Vorrei uscire
da qui”
è il titolo di una foto del 1976 di Birgit Jürgenssen, un autoscatto in cui
l’artista veste i panni di moglie borghese imprigionata nella “casa di bambola”,
il limitato spazio concesso alla donna nella società.
Una
pretesa di spazio, sintetizzata dall’artista nella lettera a Doris Psenicnik: “La questione dell’identità personale oggi
non è più chi sono? Bensì piuttosto dove sono?...l’identità di genere è
prodotta dallo spazio che gli esseri umani si creano per potervi esistere.”
(Vienna,
8 marzo 2000, B. J.).
Francesca
Woodman sembra porsi le stesse domande. Nei suoi autoscatti la figura è costantemente in rapporto con uno
spazio.
Quasi
sempre si tratta dell’ambiente domestico, proprio quel luogo destinato alla donna ma qualcosa è cambiato.
Il
rassicurante interno borghese è distrutto.
Non
c’è più nulla di riconoscibile. E’ una casa decadente, dove tra i resti si
aggira una figura femminile nuda, che finalmente è uscita fuori e adesso liberata 'si esplora'.
Dialoga
con quel vuoto, fino a condividere la sua intimità. Si spoglia nel silenzio di una
stanza per materializzare il suo regno interiore.
All’inizio
sono esterni a Boulder ma presto diventano ossessivamente desolati interni a
Providence, Roma e New York.
Il
corpo appare e scompare, si fa parete è ombra sulle doghe del pavimento, si
riflette negli specchi, il suo operare è continuo e non può fermarsi.
Trasforma
la banalità del quotidiano in enigma improvviso, giocando con gli oggetti che
trova per caso o per voluta collocazione.
Muovendosi
in uno stato di dormiveglia, la sua figura oscilla tra la dimensione reale e
quella del sogno.
E’
così che ci lascia i suoi messaggi.
Quindi
non si tratta di rivendicare uno spazio solo fisico ma soprattutto psichico, uscire
da certe imposizioni mentali. Abbattere l’invisibile assedio.
Ed ecco la ricerca mai conclusa del sé attraverso
l'autoritratto che conduce all’estraneamento solitario, al confronto continuo con
la propria immagine che si clona, sfiorando pericolosamente le calamitanti
acque del Narciso.
Distaccarsi da sé mediante un’immagine che fa
dell’io un altro.
E’ avviato così il processo della materializzazione
dell’Ombra e del Doppio. L’Ombra è il rimosso depositato nell’inconscio.
Il Doppio è l’opposto, l’alter ego fantasma a cui
l’artista riesce a dare un’immagine attraverso cui far emergere tutte le
emotività nascoste, comprese quelle più negative.
I ritmi vertiginosi, l’iperattivismo, la corsa
contro il tempo ci impediscono il contatto con la dimensione interiore, che è
anche il contatto con la morte.
Birgit
Jürgenssen (1949-2003)
una vita breve e Francesca Woodman (1958-1981)
una vita brevissima.
Sono gli anni Settanta. La studentessa americana
Francesca e l’insegnante austriaca Birgit compiono il loro viaggio artistico in
un periodo di cruciali cambiamenti; sono gli anni della contestazione.
A differenza di altre colleghe artiste di matrice
femminista, che lanciano provocazioni molto esplicite proponendo scioccanti
performance
(Angry Woman:Valie Export, Natalia LL, Ana Mendieta, Karen Finley o la francese
Orlan), la Jürgenssen non viene contagiata da questa virulenta “cavalcata delle
valchirie”, in lei non attecchisce nemmeno l’Azionismo Viennese.
Sceglie
una strada autonoma, dai toni più pacati, per mostrare i pregiudizi contro la
donna e gli stereotipi sessuali. Mantiene sempre con fermezza un impegno
sociale e politico. Il suo lavoro è rigoroso, attento nella tecnica,
sottilmente tagliente.
Si
esprime ironicamente rielaborando con ingegno i meccanismi dell’immagine
pubblicitaria e della moda.
Francesca è
ancora un’adolescente rispetto a Birgit ma in lei è incredibilmente precoce la
consapevolezza e la maturità dell’artista che si impone in quel periodo
giovanile che invece dovrebbe essere di formazione. Brucia decisamente le
tappe.
Ha 13 anni già le è chiaro cosa chiedere alla
macchina fotografica, come usarla, quale luce e inquadratura sfruttare.
Entrambe scelgono di raccontarsi tramite la
fotografia; medium che agisce sull’immediatezza esecutiva e comunicativa. Riescono
ad oltrepassare quell’attitudine
informativa entrando in quella emotiva.
Il Surrealismo per loro diventa un’importante e costante punto di riferimento. Amalgama il tutto con le sue sospensioni
enigmatiche, la fusione tra sogno e realtà, la capacità di infinite combinazioni
e l’esplorazione nella sconosciuta sfera del rimosso.
Velocemente il corpo diventa il tramite di pensieri
e concetti, nuova superficie da sperimentare e sulla quale aprire le vedute
interiori.
Per Francesca la fotografia è un vero e proprio
linguaggio espressivo.
La confidente che restituisce una testimonianza
emotiva della sua vita. “Io vorrei
che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini
complete, nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane
latente agli occhi dell’osservatore uscisse, come se derivasse dalla sua
propria esperienza.” (F.W.)
Ne studia la tecnica, la rende raffinata, nella
composizione non lascia nulla al caso; realizza nel tempo un suo diario visivo
per confermare la propria identità minacciata nel mondo esterno.
Un lascito davvero unico nel suo genere, perché
trasmette una profondità concettuale attraverso la spontaneità tenera e
irrequieta dell’adolescenza, ovvero, il limbo temporale in cui l’immagine di Francesca
rimarrà sospesa per sempre, nell’impossibilità di diventare adulta.
Per Birgit è diverso, non utilizza unicamente la
fotografia e quando ci lavora diventa più un supporto per fissare un’idea,
un’azione. Si traveste, gioca sull’ibridazione donna-animale che si amplifica fino
alla messa in scena del rito, evocazione del daimon, una manifestazione fisica dell’anima che infatti può
prendere le sembianze di un animale.
Crea una serie di scarpe-scultura (Schuhwerk) annullando
l’aspetto funzionale ed estetico. L’oggetto sembra incubare un gene che lo
porta verso una strana, quasi mostruosa evoluzione che lo anima. Ed ecco tra i meravigliosi esemplari generati,
la scarpa incinta o quella con le ali.
In un autoscatto del 1975 la Jürgenssen
mostra la schiena con la scritta “Ognuno ha il suo punto di vista” è un voltare le spalle, rifiutare l’opinione
comune, vedere le cose da una diversa
prospettiva; anche se il rischio è di essere incompresi e di finire in “Alcune
disordinate geometrie interiori”come racconta Francesca nei suoi quaderni
fotografici, ma di perdersi vale sempre la pena, altrimenti come faremmo a
ritrovarci.
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