mercoledì 19 agosto 2020

IL CORPO #4: BIRGIT JURGENSSEN E FRANCESCA WOODMAN

 


Autoritratto di signora in un interno
di Maddalena Marinelli

“Vorrei uscire da qui” è il titolo di una foto del 1976 di Birgit Jürgenssen, un autoscatto in cui l’artista veste i panni di moglie borghese imprigionata nella “casa di bambola”, il limitato spazio concesso alla donna nella società.
Una pretesa di spazio, sintetizzata dall’artista nella lettera a Doris Psenicnik: “La questione dell’identità personale oggi non è più chi sono? Bensì piuttosto dove sono?...l’identità di genere è prodotta dallo spazio che gli esseri umani si creano per potervi esistere.” (Vienna, 8 marzo 2000, B. J.).
Francesca Woodman sembra porsi le stesse domande. Nei suoi autoscatti la  figura è costantemente in rapporto con uno spazio.
Quasi sempre si tratta dell’ambiente domestico, proprio quel  luogo destinato alla donna ma qualcosa è cambiato.  
Il rassicurante interno borghese è distrutto.   
Non c’è più nulla di riconoscibile. E’ una casa decadente, dove tra i resti si aggira una figura femminile nuda, che finalmente è uscita fuori e adesso liberata 'si esplora'.  
Dialoga con quel vuoto, fino a condividere la sua intimità. Si spoglia nel silenzio di una stanza per materializzare il suo regno interiore.
All’inizio sono esterni a Boulder ma presto diventano ossessivamente desolati interni a Providence, Roma e New York.
Il corpo appare e scompare, si fa parete è ombra sulle doghe del pavimento, si riflette negli specchi, il suo operare è continuo e non può fermarsi.
Trasforma la banalità del quotidiano in enigma improvviso, giocando con gli oggetti che trova per caso o per voluta collocazione.
Muovendosi in uno stato di dormiveglia, la sua figura oscilla tra la dimensione reale e quella del sogno.
E’ così che ci lascia i suoi messaggi.
Quindi non si tratta di rivendicare uno spazio solo fisico ma soprattutto psichico, uscire da certe imposizioni mentali. Abbattere l’invisibile assedio.
Ed ecco la ricerca mai conclusa del sé attraverso l'autoritratto che conduce all’estraneamento solitario, al confronto continuo con la propria immagine che si clona, sfiorando pericolosamente le calamitanti acque del Narciso.
Distaccarsi da sé mediante un’immagine che fa dell’io un altro.
E’ avviato così il processo della materializzazione dell’Ombra e del Doppio. L’Ombra è il rimosso depositato nell’inconscio.
Il Doppio è l’opposto, l’alter ego fantasma a cui l’artista riesce a dare un’immagine attraverso cui far emergere tutte le emotività nascoste, comprese quelle più negative.
I ritmi vertiginosi, l’iperattivismo, la corsa contro il tempo ci impediscono il contatto con la dimensione interiore, che è anche il contatto con la morte.
Birgit Jürgenssen (1949-2003) una vita breve e Francesca Woodman (1958-1981) una vita brevissima.
Sono gli anni Settanta. La studentessa americana Francesca e l’insegnante austriaca Birgit compiono il loro viaggio artistico in un periodo di cruciali cambiamenti; sono gli anni della contestazione.
A differenza di altre colleghe artiste di matrice femminista, che lanciano provocazioni molto esplicite proponendo scioccanti performance (Angry Woman:Valie Export, Natalia LL, Ana Mendieta, Karen Finley o la francese Orlan), la Jürgenssen non viene contagiata da questa virulenta “cavalcata delle valchirie”, in lei non attecchisce nemmeno l’Azionismo Viennese.
Sceglie una strada autonoma, dai toni più pacati, per mostrare i pregiudizi contro la donna e gli stereotipi sessuali. Mantiene sempre con fermezza un impegno sociale e politico. Il suo lavoro è rigoroso, attento nella tecnica, sottilmente tagliente.
Si esprime ironicamente rielaborando con ingegno i meccanismi dell’immagine pubblicitaria e della moda.
Francesca  è ancora un’adolescente rispetto a Birgit ma in lei è incredibilmente precoce la consapevolezza e la maturità dell’artista che si impone in quel periodo giovanile che invece dovrebbe essere di formazione. Brucia decisamente le tappe.
Ha 13 anni già le è chiaro cosa chiedere alla macchina fotografica, come usarla, quale luce e inquadratura sfruttare.
Entrambe scelgono di raccontarsi tramite la fotografia; medium che agisce sull’immediatezza esecutiva e comunicativa. Riescono ad oltrepassare  quell’attitudine informativa entrando in quella emotiva.
Il Surrealismo per loro diventa un’importante e costante punto di riferimento. Amalgama il tutto con le sue sospensioni enigmatiche, la fusione tra sogno e realtà, la capacità di infinite combinazioni e l’esplorazione nella sconosciuta sfera del rimosso.
Velocemente il corpo diventa il tramite di pensieri e concetti, nuova superficie da sperimentare e sulla quale aprire le vedute interiori.
Per Francesca la fotografia è un vero e proprio linguaggio espressivo.
La confidente che restituisce una testimonianza emotiva della sua vita. “Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini complete, nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dell’osservatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza.” (F.W.)
Ne studia la tecnica, la rende raffinata, nella composizione non lascia nulla al caso; realizza nel tempo un suo diario visivo per confermare la propria identità minacciata nel mondo esterno.
Un lascito davvero unico nel suo genere, perché trasmette una profondità concettuale attraverso la spontaneità tenera e irrequieta dell’adolescenza, ovvero, il limbo temporale in cui l’immagine di Francesca rimarrà sospesa per sempre, nell’impossibilità di diventare adulta.  
Per Birgit è diverso, non utilizza unicamente la fotografia e quando ci lavora diventa più un supporto per fissare un’idea, un’azione. Si traveste, gioca sull’ibridazione donna-animale che si amplifica fino alla messa in scena del rito, evocazione del daimon, una manifestazione fisica dell’anima che infatti può prendere le sembianze di un animale.   
Crea una serie di scarpe-scultura (Schuhwerk) annullando l’aspetto funzionale ed estetico. L’oggetto sembra incubare un gene che lo porta verso una strana, quasi mostruosa evoluzione che lo anima.  Ed ecco tra i meravigliosi esemplari generati, la scarpa incinta o quella con le ali.
In un autoscatto del 1975 la Jürgenssen mostra la schiena con la scritta “Ognuno ha il suo punto di vista” è un voltare le spalle, rifiutare l’opinione comune,  vedere le cose da una diversa prospettiva; anche se il rischio è di essere incompresi e di finire in “Alcune disordinate geometrie interiori”come racconta Francesca nei suoi quaderni fotografici, ma di perdersi vale sempre la pena, altrimenti come faremmo a ritrovarci. 














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