martedì 23 luglio 2024

MEMENTO MORI #4: ‘THE HATEFUL EIGHT’, di Quentin Tarantino

 

THE HATEFUL EIGHT di Quentin Tarantino

L’amaro destino di un cacciatore di taglie
di Maddalena Marinelli

Una lunga inquadratura sull’immagine desolante di un grande crocifisso che sta scomparendo sotto la neve, in un luogo assolutamente dimenticato da Dio.
Suggerisce solo una riflessione laica. 
L’emblema più famoso della crudeltà umana.
Un uomo torturato e inchiodato ad una croce finché morte non sopraggiunga.
Cosa ci può essere di più barbaro e orrendo? 
Preannuncia al pubblico il carnaio che presto avrà inizio, in una completa assenza di perdono e pietà.
Sull’inquietante e improvviso incalzare della musica di Ennio Morricone compare dal nulla una diligenza che sfreccia nel paesaggio innevato del Wyoming con a bordo il noto cacciatore di taglie John Ruth detto ‘il boia’ e la famigerata fuorilegge Daisy Domergue, creatura rabbiosa e razzista destinata alla forca.
Sono trascorsi pochi anni dalla fine della Guerra Civile Americana.
Una Nazione ancora dilaniata e confusa sui concetti di moralità, giustizia e legalità.
In giro molti fuorilegge, disertori, sopravvissuti che non hanno nulla da perdere dopo essersi calati nell’abisso dei disastri della guerra. 
Si vive pensando di poter morire da un momento all’altro.
E’ in arrivo una tormenta e la diligenza, diretta a Red Rock, decide di sostare all’emporio di Minnie.
Il grosso del lavoro di John Ruth sembra concluso ma in realtà tutto è pronto a complicarsi terribilmente.
Gli uomini che incontrerà lungo il tragitto e quelli che troverà nel bungalow, forse, non sono quello che dicono di essere.

Kurt Russell e Samuel L. Jackson in 'The Hateful Eight'

In un ristretto spazio si ritroveranno otto veri bastardi a confrontarsi con le conseguenze e i rancori della Guerra di Secessione, le questioni razziali, la legge della frontiera ma soprattutto con un carico d’odio sconsiderato che ognuno cova per motivi diversi.
“L’odio è un sentimento autolesionista. Ci toglie dignità e grandezza, è come una catena” (Ingrit Betancourt)
Odio nei confronti del prossimo perché nero, perché nordista o sudista, perché straniero, perché donna, perché pericolo a prescindere.
Basta molto poco per mettere mano alla fondina, come una parola di troppo o una sciocca storiella inventata ad arte.
Una polveriera pronta ad esplodere con dentro yankee, schiavisti, neri, messicani, cacciatori di taglie, fuorilegge. 
Il candido manto nevato non impiegherà molto a tingersi di sangue.
Chi è veramente quello che dice di essere?
Nel gioco delle identità da scoprire arrivare alla verità costerà molte vite come in Dieci piccoli indiani di Agatha Christie
Nessuno si salva, tutti sono veri autentici ‘odiosi’.
Tanto marciume, dialoghi sboccati, corpi maciullati che deflagrano, cattiveria, sadismo, menzogne.
Questa parabola dell’odio appartiene solo al passato?

Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh e Bruce Dern in 'The Hateful Eight'

Tarantino è cambiato ma non rinnega gli inizi. 
Torna alle sue folgoranti origini con un impianto teatrale che ricorda dichiaratamente il ‘tutti contro tutti’ di Le iene anche se in The Hateful Eight i personaggi sono trattati con più distacco. 
Vengono raccontati con meno amore e non ci si preoccupa di farli conoscere meglio tramite flashback.
Abbandonati a se stessi dal loro autore, lo spettatore può unicamente affidarsi alle loro parole e ai fatti estemporanei.
Quella crudeltà che si sviluppava in un variopinto mondo criminale odierno adesso viene collocata in un preciso quadro storico: Il nazismo in Bastardi senza gloria, lo schiavismo in Django Unchained e il post-Guerra Civile Americana in The Hateful Eight.
Un Tarantino meno interessato a giocare con il cinema per il cinema, il citazionismo, la caricatura, il maniacale tecnicismo, il puro splatter.
Diventa più riflessivo, più indagatore sulle origini del male contemporaneo, anche se il gusto per l’artificio supera l’autenticità della narrazione.
Quella rappresentazione funesta e grottesca della cattiveria dell'uomo e della sua avidità si apre verso un preciso contesto storico e tutto sembra diventare improvvisamente più greve, nonostante non rinunci al pulp.

Jennifer Jason Leigh in 'The Hateful Eight'

Ovviamente ad essere presa di mira è proprio la sua Nazione carica di irresolutezze ed espiazioni da scontare, in cui l’odio razziale è ancora molto presente e all’ordine del giorno.
Django Unchained, più lirico e maestoso, accoglieva in un magnifico connubio sapori diversi. 
Il gioco surreale, l’ironia, le rielaborazioni tarantiniane dei classici western con la drammatica riflessione sulle reali atrocità dello schiavismo.
The Hateful Eight è un’opera da camera dove lo spettatore è l’invisibile numero nove invitato ad entrare nell’emporio di Minnie e starsene in prima fila a guardare l’inesorabile svolgersi degli eventi.
Questi ‘odiosi otto’ si fanno continue provocazioni, si insultano, s’inventano storie e vite inesistenti. 
Tutto è affidato al gioco verbale, mai stato così nichilista, che diventerà gioco di sangue.

Michael Madsen in 'The Hateful Eight'

Qui non c’è nessun eroe, tutti sono delle carogne, nessuno è senza macchia.
L’unica cosa che riporta ad una composta emozione provocando, per qualche momento, una sorta di magica amnistia è quella lettera di Abramo Lincoln  che scuote gli animi.
Dentro le quattro mura di quel rifugio Tarantino concentra tutto il suo ingegno, gli innesti citazionistici, i suoi famosi arzigogolati dialoghi, i soliti girotondi tra  cacciatori e prede che si annusano in attesa di sferrare l’attacco.
Sappiamo come venera il cinema, lo conosce, ne ha grande consapevolezza tecnica, ne è completamente ossessionato e fagocitato.
E’ un regista che ama molto di più essere spettatore. 
Quando guarda nella macchina da presa pensa di essere seduto in sala a godersi il film.
Si è esposto in prima linea nella battaglia tra pellicola e digitale.
Al New Beverly Cinema di Los Angeles, la sala cinematografica di sua proprietà, si proietta esclusivamente in celluloide e per questa sua ottava opera filmica ha preteso ed è riuscito a girare in 70mm, ottenendo inquadrature molto ampie e profonde rievocando la maestosità visiva di certi kolossal del passato.
Una costosa sciccheria controcorrente.
Peccato che non ne potranno godere in molti.
 
Tim Roth in 'The Hateful Eight' 

Tarantino incarna lo star system o se ne può fregare perché è tra quei pochi che possono starci dentro e uscirne quando vogliono senza alcuna conseguenza.




venerdì 12 luglio 2024

LA FINE DEL MONDO #14: ‘IL PAESE INCANTATO’, di Alejandro Jodorowsky

 

IL PAESE INCANTATO (1968) di A. Jodorowsky

La ricerca di un mitico altrove
di Maddalena Marinelli
 
Esistono sogni e incubi collettivi. 
Un uomo trascina sopra un carretto la sua donna paralitica. 
Insieme partono alla ricerca della leggendaria città di Tar, luogo estremo, dove rifugiarsi da una realtà all’ultimo stadio del disfacimento morale. 
Lo scenario si presenta apocalittico; un mondo spazzato via, in cui i sopravvissuti vivono tra le macerie senza più riferimenti e regole. 
Fando e Lis rappresentano la coppia archetipica; lottano tra istinto di preservazione e istinto di distruzione del loro legame.
Lis ha un’ anima ma allo stesso tempo è  come un oggetto che appartiene a Fando, poco più di una bambola che lui si trascina dietro come un fardello da torturare; feticcio su cui scaricare tutte le sue frustrazioni e sgravare l’odio verso la figura della madre.

Diana Mariscal in 'Il paese incantato' 

Forse Lis è solo un’invenzione di Fando, la rappresentazione della purezza indifesa che viene sempre minacciata o corrotta. 
Il cammino verso Tar si rivelerà una discesa nell’abisso della psiche da cui riemergono ricordi, dolori, traumi mai affrontati incarnati da una serie di emblematici personaggi. 
Un girone dantesco, un labirinto infernale dove i due protagonisti si ritrovano sempre al punto di partenza. 
Quando Lis distrugge il tamburo che rappresenta l’ultimo prezioso oggetto dell’infanzia, Fando la uccide facendola diventare una santa divorata dai suoi fedeli che attraverso l’atto del cannibalismo cercano di conquistare un pezzetto della sua purezza.
L’universo di un’artista. 
Il paese incantato è il lungometraggio d’esordio di Alejandro Jodorowsky che all’epoca era conosciuto in Messico soprattutto come autore e regista teatrale. 
Fondatore con Roland Topor e Fernando Arrabal del Teatro Panico, arrivava dall’esperienza surrealista e dal mondo del mimo di Marcel Marceau.
Quando i messicani lo conobbero anche come regista cinematografico, attraverso la proiezione di Fando y Lis al Festival di Acapulco, la reazione fu un tentativo di linciaggio a cui Jodorowsky sfuggì. 
Un grande scandalo, troppi tabù infranti da digerire e visioni difficili da decifrare. Oppure troppe verità nascoste sbattute in faccia. 
Cave deserte, cimiteri profanati da scenette che prendono in giro la morte, donne anziane che seducono uomini giovani, allegre bande di travestiti, una donna che rappresenta la figura di un pontefice, antropofagia, vampirismo e molto altro scatenò l’ira del popolo messicano che mise al rogo la pellicola per molto tempo.

Sergio Klainer e Diana Mariscal in 'Il paese incantato'

Un film assolutamente spregiudicato, debordante di idee visive, un’obiezione al cinema come racconto “E’ stato il mio sé adolescente a realizzarlo” (A. Jodorowsky)
Un’ opera che prima di sensibilizzare tende a destabilizzare creando immagini di accostamenti impossibili sul principio della dissimilitudine surrealista.
Il percorso da compiere è un attraversamento nel buio della mente.
Un poema visivo, un’overdose dell’immaginifico.
Un’ operazione corrosiva e spappolatrice contro l’amalgama e l’unità di visione.
Il ripetersi dell’atto ostinatamente fastidioso, violento e crudele è utilizzato per andare contro un cinema convenzionale, in particolar modo l’attacco era rivolto alla cinematografia americana accusata di celare, troppo spesso, una propaganda politica o ideali da inculcare alle masse.
Alejandro Jodorowsky  si definisce poeta e alchimista, uno sperimentatore ondivago di tutti i tipi d’arte, non aveva nessuna competenza sul come si girasse un film ma questa sua incapacità registica e l’imprecisione tecnica produce inaspettatamente una visione eccentrica, stordita da un entusiasmo fanciullesco. 
Una dimensione ludica ma allo stesso tempo colta.
Sarà supportato tecnicamente da ben due direttori della fotografia e in fase di montaggio da Carlos Savaga il montatore dei film di Bunũel.
La trama è liberamente tratta da un testo teatrale di Fernando Arrabal ma non esiste nessuna sceneggiatura, 
Jodorowsky si fa guidare dal flusso di esperienze e ricordi legati al suo passato e dalla sua grande ipertrofia visiva. 
Partorisce un’incredibile mappatura iconografica che continuerà a proliferare ed evolversi con più ordine nei successivi film: El Topo il western spirituale che lo porterà al successo, seguito da La Montagna Sacra e Santa Sangre.
Jodorowsky voleva la realtà, anzi insegue un realismo estremo, per  Fando y Lis non cercava attori ma persone il più possibile vicine ai personaggi. 
Ecco perché nel cast compaiono soprattutto amici e parenti.
Le rovine di un maniconio, un cimitero messicano, una miniera abbandonata diventano i suggestivi luoghi del film, incredibili set naturali dove si girava durante il fine settimana in situazioni assolutamente abusive. 
Addirittura il film sarebbe stato realizzato nell’arco di un solo week end sotto gli influssi di una trance creativa.

Sergio Klainer e Diana Mariscal in 'Il paese incantato'

C’è una corrispondenza onirica tra Jodorowsky e Fellini. 
La coppia Fando e Lis ricorda  quella di  Zampanò e Gelsomina del film La strada in cui compare il tema del viaggio e dell’innocenza distrutta, concludendosi con la straziante morte del personaggio femminile e la riscoperta della sfera emotiva del personaggio maschile.  
Anche la somiglianza fisica tra Lis e Gelsomina è molto evidente. 
In seguito Fellini nel 69’ sembra restituire la citazione al collega Jodorowsky con Satyricon che attraverso i suoi scenari apocalittici da Divina Commedia e il susseguirsi di bizzarri personaggi riconduce alle atmosfere di Fando y Lis girato l’anno prima in Messico.
Ma da Fellini a Jodorowsky rimbalzeranno molte altre fantasie condivise come la femme fatale materna e annientatrice, la solitudine e il fascino dei circensi, il riferimento autobiografico tra ricordo ed invenzione, la decadenza morale che accompagna il benessere economico.

mercoledì 3 luglio 2024

L’ARTISTA MALEDETTO #6: ‘TURNER’, di Mike Leigh

 

TURNER di Mike Leigh

Un uomo rude dal meraviglioso ingegno
di Maddalena Marinelli

Il pittore del sublime che calò l’occhio all’interno della furia distruttiva della natura. 
La fascinazione dell’abisso, in un vortice di luce, in cui la realtà deflagra nello spazio dell’interiorità.
L’artista romantico William Turner arriva alle soglie dell’astrattismo, lasciando pochi stralci di un  reale polverizzato da luce assoluta che divampa in spazio assoluto.
Vuole esplorare e vivere l’emozione dell’impeto inatteso sporgendosi dal finestrino di un treno in corsa durante una giornata di pioggia torrenziale. 
E’ un uomo pronto a farsi legare all'albero maestro di una nave nel bel mezzo di una tormenta di neve, per tradurre su tela quelle incredibili sensazioni.
Esprime gli umori della natura trasportandoci all’interno della tempesta in un enorme magma pittorico in cui viene divorato tutto.
Studia i fenomeni atmosferici ma non rimane indifferente al dramma umano immortalando un  naufragio con i cadaveri degli schiavi buttati in mare in La nave negriera (1840).

Timothy Spall in 'Turner'

Dipinge un quadro dedicato alla “Fighting Temeraire”, la nave che combatté a Trafalgar, trascinata da un rimorchiatore per essere demolita.
Rimane incantato dal passaggio del primo treno a vapore che diventerà il protagonista di uno dei suoi più celebri dipinti Pioggia, vapore e velocità (1844)
Il suo sogno era quello di poter vedere da vicino l’imponenza delle cascate del Niagara.
E’ la violenta forza del mare a tornare spesso nella sua opera ma più di ogni altra cosa si interessa alla luce. Un luminismo ascendente in dinamica espansione.
Cos’è la luce per Turner? La studia e la insegue per tutta la vita. Manifestazione del sovrannaturale tra ordine e caos. Il sole è Dio" disse poco prima di morire.
Tanto passionale nella sua visione artistica quanto flemmatico nei rapporti umani.
Instancabile viaggiatore. Rimaneva affascinato da determinati luoghi per via della qualità della luce.

Timothy Spall e Paul Jesson in 'Turner'

Un Ulisse ramingo perso nel vortice della sua compulsiva ricerca artistica senza nessuna vera Itaca a cui far ritorno, vista la sua scarsa propensione per i legami sentimentali. L’unico vincolo indissolubile lo ebbe col padre, suo devoto assistente.
Non voleva avere nessun rapporto con le due figlie illegittime, approfittava sessualmente della sua devota governante e negli ultimi anni della sua vita iniziò una pseudo relazione romantica con una vedova che gestiva una pensione sul mare.
Mike Leigh con la sua proverbiale capacità introspettiva scava, approfondisce, scandaglia l’uomo e l’artista evidenziando l’anima controversa di Turner con tutti i suoi difetti, limiti e grandezze.

Timothy Spall in 'Turner' 

“E’ stato un gigante tra gli artisti del suo tempo: risoluto e intransigente, straordinariamente prolifico, rivoluzionario nel suo approccio, abile nella tecnica, visionario e lungimirante. Eppure, l’uomo Turner era eccentrico, anarchico, vulnerabile, imperfetto, inaffidabile e a volte rozzo. Poteva essere falso, egoista e cattivo, ma anche generoso appassionato e capace di slanci poetici.”
(Mike Leigh, note di regia)
Attraverso una bellissima scrittura visiva, lenta e implacabile, il regista inglese compone sottilmente ogni tassello, ogni personaggio, ogni luogo, ogni conflitto drammatico. L’intento è soprattutto quello di far immergere il pubblico nel processo creativo di Turner per questo non si tratta di un biopic convenzionale. 
I fatti si susseguono, si accumulano senza precise scansioni.
Tra salotti con raffinate e colte dame sedute al piano  fino a bordelli con tristi e stordite giovani donne, viene raccontato un variegato campionario umano che immortala magnificamente la società inglese dell’epoca.
Un Turner al lavoro, sempre in frenetico cammino per il mondo alla ricerca di visioni inedite della natura.
Un personaggio dickensiano rozzamente arcigno che esprime i suoi dissensi con grugniti e offre al suo pubblico una sorta di performance diluendo i colori sputando animalescamente sulla tela.

Timothy Spall in 'Turner' 

Il confronto con i pittori alla grande mostra annuale della Royal Academy of the Arts tra salamelecchi e diatribe. 
Il pacato rivale Constable, l’altro grande paesaggista, che offeso dalle stravaganze e provocazioni di Turner abbandona la sala indispettito.
L’incomprensione. Lo sberleffo di colleghi e pubblico quando arrivò ad eliminare dall’opera ogni richiamo alla realtà lanciandosi nella totale sperimentazione.
La derisione. Secondo alcuni critici egli non dipingeva ma impastava sulla tela ingredienti da cucina, quali uova, cioccolata, panna. Un miscuglio da pasticciere.
Fu troppo anche per la regina Vittoria. La sovrana inglese lo lapidò asserendo che probabilmente stava perdendo la vista e definì le sue opere più recenti un’ incomprensibile paccottiglia di colore.

Timothy Spall e Marion Bailey in 'Turner'

Il giovane John Ruskin lo ammira e lo sostiene acquistando le sue opere.
L’affermazione dei Pre-Raffaelliti, un ritorno al passato che Turner non può che accogliere con un mugugno di disapprovazione.
Nella sua galleria privata, rifiuta un’offerta di 100mila sterline da Joseph Gillott, il milionario fabbricante di pennini. 
Gillott vorrebbe acquistare tutti i suoi lavori, ma il pittore li ha già donati allo stato inglese, perché vuole che siano visti “tutti insieme, in un solo luogo, gratis”.
Sul letto di morte, anziano e malato, non perde il vigore creativo.
L’inesauribile voglia di osservare e ricreare la vita.
Leigh saluta ‘il poeta della luce’ lasciandolo davanti a un enorme sole al tramonto intento a cogliere quell’attimo di grazia.